Grimvald si sedette accanto al letto di El, l'amuleto del capo arcanista tra le mani. Lo girava e rigirava con cura, osservando ogni dettaglio. Il suo sguardo concentrato e la fronte corrugata indicavano che stava facendo delle connessioni pericolose. El, convalescente ma sempre vigile, lo fissava con curiosità e una punta di impazienza.
"Non c'è dubbio," iniziò Grimvald, rompendo il silenzio. "Lo stile di questo amuleto ricorda quello dell'esercito Mesvet, ma... c'è qualcosa di diverso. Un'inclinazione più primordiale, più feroce. Ematomanzia e necromanzia."
"Necromanzia ed ematomanzia," ripeté El, come assaporando le parole. "Spiegami di più."
Grimvald annuì. "Queste due scuole non sono invenzioni dei Mesvet. Sono derivate dai non morti più potenti di Dolor: Lich e Archilich. I Lich, come sai, sono maghi non morti che mantengono la loro coscienza tramite filatteri personali. Gli Archilich, invece, sono creature più antiche, leggende viventi. Non è strano che queste arti siano state adattate nel corso dei secoli. Ma vederle usate dall'esercito umano? Questo è... strano."
Si fermò un attimo, riflettendo. "Dopo aver visto Venetia, però, non mi sorprende più nulla. Maria la Sanguinaria è disposta a tutto. E dico tutto."
"E allora?" chiese El, stringendo le mani sul bordo del letto. "Cosa dobbiamo fare? Dove possiamo cercare risposte?"
Grimvald sospirò, appoggiando l'amuleto sul tavolo accanto a lei. "Forse, e sottolineo forse, tramite i diavoli potresti ottenere dei contatti. Ai piani più bassi di Dolor. Parlo di oltre il duecentesimo piano, dove inizia il Campo di ghiaia. È il confine tra i piani dei diavoli e quelli delle aberrazioni e dei non morti."
El alzò un sopracciglio. "E dopo il quel piano?"
Grimvald la fissò con un'espressione cupa. "Aberrazioni e non morti fino al quattrocentesimo piano. Lì inizia il dominio dei demoni. Ma non pensare neanche per un momento di arrivare così in basso."
El non rispose, il suo silenzio era già una risposta.
"Senti," continuò Grimvald, inclinando leggermente la testa. "C'è una leggenda, sai? Racconta di Al'Shaitan, il sultano dei diavoli, e di come, in tempi remoti, riunì i diavoli per combattere gli Orgaal. Quando gli Orgaal furono frammentati in demoni, aberrazioni e non morti, Al'Shaitan strinse un'alleanza con i signori della morte e le aberrazioni per respingere i demoni ancora più in profondità in Dolor."
"E riuscì?"
Grimvald annuì. "Sì, ma non senza conseguenze. I demoni, già devastati da lotte interne, vennero esiliati oltre il quattrocentesimo piano. E quando furono sconfitti, Al'Shaitan tradì i suoi alleati, occupando con la forza i primi duecento piani di Dolor. I non morti e le aberrazioni, fragili e disorganizzati, rimasero schiacciati tra i diavoli e i demoni."
"E cosa c'entra tutto questo con noi?"
"C'entra," rispose Grimvald, stringendo le mani. "I diavoli mantengono contatti con i signori della morte e le aberrazioni. È quasi certo. Ma chiedere a loro qualcosa non è mai semplice, e non è mai privo di conseguenze. Potresti scoprire di più su questo amuleto, ma sarebbe una strada pericolosa."
El rimase in silenzio, fissando l'amuleto. La sua mente era già in moto, cercando soluzioni e rischiando calcoli che Grimvald non avrebbe mai approvato.
"Senti," aggiunse lo gnomo con un tono più grave. "Riposa. Non farti vedere troppo interessata a questo genere di cose. Ho visto persone come te rovinarsi per la loro curiosità. Avevo un amico che... ha pagato un prezzo altissimo per voler sapere troppo. Non diventare come lui."
El sollevò lo sguardo e sorrise debolmente. "Non prometto nulla, Grimvald."
Grimvald scosse la testa e si alzò. "Lo so."Poi si girò e lasciò la stanza, mentre l'amuleto rifletteva la luce tenue delle candele, pulsando come un cuore che non voleva spegnersi.
Passarono giorni nella torre, immersi in una routine che a Kethmer iniziava a sembrare un monotono labirinto. I loro compiti di allenamento e supervisione delle pedine li tenevano impegnati, ma la mente di El sembrava altrove, persa in pensieri insondabili. Kethmer, che di tanto in tanto passava a trovarla per assicurarsi che si stesse riprendendo, notò presto una determinazione inquieta nei suoi occhi.
Una sera, mentre entrava nella sua stanza per la consueta visita, El lo guardò con un'espressione decisa. "Voglio chiedere udienza a Tahira e all’altro diavolo," annunciò senza preamboli.
Kethmer si bloccò, osservandola come se fosse impazzita. "Hai perso la testa?"
El non batté ciglio. "Dolor nasconde le risposte che cerco. Voglio sapere di più sull'amuleto, sulla mia famiglia, su me stessa."
Kethmer la fissò incredulo, cercando di capire quanto fosse seria. "Non sappiamo chi sia quel diavolo. Sai a cosa stai andando incontro?"
El incrociò le braccia e alzò il mento in un gesto quasi capriccioso. "Se tu non mi accompagni, ci andrò da sola."
Il tono della sua voce era un misto di ostinazione e sfida, e Kethmer capì che non avrebbe potuto dissuaderla. Si passò una mano tra i capelli e sospirò. "Va bene," cedette, guardandola con aria stanca. "Ti accompagnerò. Ma spero che tu sappia in che guaio ti stai cacciando."
"Non preoccuparti," rispose El, il suo tono più morbido ora che aveva ottenuto ciò che voleva. "Ho già un piano."
"Ah, un piano," replicò Kethmer sarcastico. "Spero non sia come quello del censimento."
El sorrise appena, un sorriso che Kethmer non riuscì a interpretare. "Andrà tutto bene."
Kethmer sentì il fischio crescere nelle sue orecchie mentre lasciava la stanza. "Andrà tutto bene," ripeté a bassa voce, più per convincere se stesso che per credere a lei.
I due lasciarono la torre principale dei traduttori sotto il cielo pallido e immobile di Dolor, accompagnati solo dal freddo silenzio. Fin dal primo passo verso l’uscita, Kethmer aveva percepito il peso dello sguardo distante, quella sensazione di essere osservati da qualcosa o qualcuno che preferiva restare celato. Ignorò il fischio che cresceva impercettibile nella sua mente e seguì El.
Raggiunsero la torre vicina, un’imponente costruzione di cristallo che sembrava emanare una luce spettrale. Kethmer si fermò davanti al battente decorato con un volto scolpito, incorniciato da corna intrecciate, e bussò con fermezza. L’impatto fece risuonare un’eco profonda che sembrò risalire la struttura fino al cielo.
La porta si aprì lentamente, con un cigolio che sembrava più un lamento, lasciandoli entrare. All’interno, l’aria era densa, carica di una presenza invisibile che osservava e giudicava. Salirono in silenzio una scalinata che sembrava infinita, il freddo intensificandosi a ogni gradino.
Arrivati all’ultimo piano, non vi era traccia di Tahira, come se la torre avesse scelto un altro padrone. Li accolse invece un uomo imponente seduto dietro a una scrivania di vetro nero. Era vestito in abiti sontuosi, adornato di gioielli che scintillavano sotto la fioca luce. Indossava una maschera neutrale con lunghe corna e un turbante intricatamente avvolto. Kethmer si sentì immediatamente ignorato, come se non fosse altro che un’ombra.
"Chi sei e cosa vuoi?" domandò Al’khalil Gibran Medel con una voce profonda e tagliente, parlando nel linguaggio antico dei Mesvet.
El rispose con fermezza, enunciando nome e cognome.
La reazione di Al’khalil fu quasi impercettibile, ma l’interesse trapelò nei suoi movimenti misurati. "Minari," ripeté, assaporando il nome come fosse una reliquia.
El lo fissò senza paura. "Sono qui per sapere degli Archilich e dei Signori della Morte."
Al’khalil sorrise dietro la maschera, ma l’espressione non trasmise calore. "Le informazioni non sono mai gratuite, ragazza. Cosa sei disposta a offrire in cambio?"
"Cosa vuoi?" domandò lei, il tono calmo, quasi disinteressato.
La stanza sembrò gelare all’improvviso. "Il tuo primogenito," disse Al’khalil senza esitazione. "Se e quando ci sarà."
Kethmer si irrigidì accanto a lei, confuso dal dialogo incomprensibile, ma El non mostrò alcuna reazione. Lo guardò, valutò la richiesta, poi annuì. "Accetto."
Al’khalil si protese in avanti, facendo scivolare un contratto intriso di fumo nero sulla scrivania. "Firma con il tuo sangue."
El prese una piccola lama dal suo stivale e si tagliò il polpastrello. Firmò il contratto senza esitazione, il sangue che si assimilava al fumo come se fosse vivo. Al’khalil osservò con compiacimento.
"Non ho contatti diretti con gli Archilich," ammise poi, "ma Tariq il Selvaggio, colui che risiede nella torre centrale, li ha. È mio parente."
El corrugò la fronte. "Dove si trova ora?"
"In viaggio. Ma farò in modo che sappia che lo hai cercato. Verrà lui da te, quando lo desidera."
La sua voce era piena di ambiguità, e Kethmer, che osservava in silenzio, sentiva crescere l’inquietudine. Cercò di intervenire, ma Al’khalil lo interruppe con un gesto tagliente della mano. "Hai ottenuto ciò che volevi. Ora andatevene."
La porta dietro di loro si spalancò, il vento gelido di Dolor a spezzare ogni possibilità di replica. Kethmer trattenne la frustrazione mentre seguiva El fuori dalla torre, il peso di ciò che aveva appena accettato ancora sospeso nell’aria.
I giorni passavano come sabbia tra le dita, un inesorabile scorrere di eventi che alimentava la tensione nella torre e nel cuore di Kethmer. Gli allenamenti si intensificavano, e lui, determinato a padroneggiare ulteriori tecniche di gravitomanzia, passava ore sotto la guida severa di Grimvald, affinando incantesimi che manipolavano lo spazio e il peso. Gli esercizi però non bastavano a scacciare il fischio, quel maledetto sussurro che sembrava crescere dentro di lui, sempre più forte, come una corda tesa pronta a spezzarsi.
Nel silenzio della sua stanza, lontano dagli occhi inquisitori degli altri, si rifugiava nel Ghymo rimasto. Ogni respiro del fumo tossico lo portava a un'effimera quiete, ma anche questo sollievo era ormai fragile, inefficace contro il caos crescente nella sua mente. Si chiedeva quanto tempo gli restasse prima che il fischio lo portasse alla follia.
Intanto, il conflitto con l’Imperatrice Maria si faceva sempre più aspro. Le squadre di figure venivano mandate una dopo l’altra a sabotare le operazioni degli arcanisti del censimento. Ogni missione era un gioco d’azzardo, e ogni ritorno portava notizie di perdite. L’organizzazione dei Traduttori del Silenzio, una volta temuta e letale, iniziava a mostrare crepe. Il numero di membri diminuiva, e con esso la solidità stessa dell’intera struttura.
Anche Kethmer, El e Torvax furono chiamati a una missione di sabotaggio. Destinazione: una città di confine che si affacciava sulle terre dell’Impero. Il compito era semplice nella sua brutalità: distruggere una squadra di arcanisti. Nessuna ricerca di informazioni, nessuna sottigliezza. Solo sangue.
Arrivarono di notte, mascherati dall’oscurità. La squadra si muoveva con precisione letale, Kethmer avanzava silenziosamente, il suo fischio quasi un canto nella sua mente, mentre Torvax lo seguiva con l’aria di un predatore, i suoi nuovi innesti che riflettevano una luce sinistra. El era fredda come sempre, gli occhi privi di emozione, ma la sua magia colpiva con una precisione spietata.
La battaglia fu rapida e feroce. Gli arcanisti, colti di sorpresa, non ebbero scampo. Gli incantesimi di El, amplificati dalla sua necromanzia, strappavano la vita dagli avversari, mentre Kethmer piegava il terreno stesso contro di loro, schiacciandoli con l'invisibile forza della gravitomanzia mentre li massacrava con la sua spada. Torvax, con la sua solita smania, si muoveva tra i corpi, eliminando i feriti e raccogliendo trofei come un macabro contabile.
Eppure, al termine della missione, non vi era soddisfazione. Niente di utile era stato recuperato, e il gruppo si ritirò nella torre con il peso di un’altra notte di sangue. Ogni missione li avvicinava a un punto di rottura. Il fischio di Kethmer si intensificava, El sembrava sempre più distaccata, e persino Torvax, che sembrava immune a tutto, iniziava a mostrare segni di stanchezza.
Le voci di perdite tra i Traduttori si facevano sempre più frequenti. Le squadre cadevano, gli alleati sparivano, e Maria continuava a guadagnare terreno. L’organizzazione, che una volta aveva regnato nell’ombra, sembrava ora sull’orlo della disgregazione. Kethmer sapeva che, se le cose continuavano così, non ci sarebbe stato un futuro né per loro né per i Traduttori. E il fischio, sempre presente, gli ricordava che forse non sarebbe mai arrivato a vedere quel futuro.
La notte gravava pesante sopra la torre, un’oscurità profonda che sembrava amplificare ogni scricchiolio e ogni ombra. El, vegliata solo dalla luce fioca di una candela, stava sfogliando un vecchio tomo di necromanzia quando il suono sordo di nocche contro la porta interruppe il silenzio. Si irrigidì, il cuore che accelerava impercettibilmente, non per paura, ma per una sensazione di disagio familiare.
Prima che potesse rispondere, la porta fu letteralmente strappata via dai cardini. Nella cornice rimasta vuota, una figura torreggiante oscurava la luce della candela. Un diavolo, alto come due uomini, con corna che sfioravano l’arco della porta. La maschera che indossava non era neutrale come quella degli altri, ma mostrava un’espressione di rabbia distorta, una feroce dichiarazione di disprezzo.
El si alzò di scatto, ma non mostrò segni di paura. "Chi sei?" chiese, la voce fredda ma ferma.
"Sono Tariq," rispose il diavolo, la voce come un ringhio profondo. Entrò senza aspettare invito, piegandosi leggermente per passare sotto l’arco e riappoggiando la porta sradicata al suo posto con un gesto sorprendentemente calmo.
El si sforzò di mantenere la sua compostezza. "Come sei entrato?"
"Attraverso la porta," rispose Tariq, come se la domanda fosse stupida, il suo tono intriso di disprezzo.
Lei lo studiò con attenzione, cercando di decifrare se la sua presenza fosse una minaccia immediata o una semplice manifestazione del caos naturale dei diavoli. Decise di andare dritta al punto. "Hai contatti con i signori della morte?"
Tariq emise un suono gutturale, un ruggito soffocato che poteva essere interpretato come una risata. "Conosco uno di loro," disse infine, con un disprezzo che sembrava essere rivolto non solo a lei, ma all’intero mondo materiale. "Un Arcilich del 329esimo piano. Un antico tiranno delle ossa."
Dal nulla, le porse un foglietto. Era un pezzo di pergamena scura, su cui era stato disegnato un cerchio magico incredibilmente complesso, intrecciato con rune e simboli che sembravano pulsare di una vita propria. "Questa è la via," disse Tariq, il suo tono ancora tagliente. "Ma non pensare che mi debba qualcosa. Non voglio nulla da te. Sei un inutile sacco di carne."
El si limitò a prendere il foglio senza rispondere, i suoi occhi che seguivano ogni movimento del diavolo, attenta a ogni segnale. Tariq non si curò di dire altro. Girò sui talloni e uscì dalla porta come era entrato, senza fretta ma con un’inquietante grazia.
Quando El uscì nel corridoio, il cuore che le batteva ancora nel petto, Tariq non c’era più. L’aria aveva una strana pesantezza, un silenzio innaturale che sembrava avvolgerla. Guardò il foglio nella sua mano, consapevole che le informazioni che aveva appena ricevuto l’avrebbero condotta su un sentiero di cui nemmeno lei poteva prevedere il finale.
El raggiunse Kethmer nel tardo pomeriggio, trovandolo nella sala degli allenamenti, sudato e con il respiro pesante dopo l’ennesimo scontro a mani nude con Decimo. Quando la vide avvicinarsi, capì subito che c’era qualcosa di importante. Si asciugò il viso con un panno e fece un cenno verso l'angolo più isolato della sala.
"Devo parlarti," disse El, il tono tagliente e freddo come sempre.
Kethmer si appoggiò alla parete, incrociando le braccia. "Che succede? Hai trovato un altro folle piano da farmi seguire?"
Lei ignorò il sarcasmo. "Ho un’idea. La prossima volta che ci invieranno in missione, userò il cerchio magico che mi ha dato Tariq per raggiungere il signore della morte al 329esimo piano. Voglio risposte, e non posso ottenerle qui."
Kethmer aggrottò le sopracciglia. "E Torvax? A lui di certo non gli piacerà questo piano."
"Lo inganneremo," rispose El, il tono secco e privo di esitazioni. "Troveremo una scusa per farlo tornare indietro. Non possiamo rischiare che ci segua, è troppo attaccato ai traduttori."
Kethmer rifletté per un attimo, fissandola con un misto di sospetto e curiosità. "E io? Perché me lo stai dicendo?"
El fece un passo avanti, il volto serio e gli occhi freddi che sembravano perforarlo. "Perché so che capirai. Questa organizzazione si sta sgretolando sotto i nostri occhi. La regina e il re non ci stanno guidando verso una rinascita, ci stanno nascondendo qualcosa. Ogni loro gesto, ogni decisione sembra una farsa per coprire un disegno più grande."
"Quale disegno?" chiese lui, il fischio che cominciava a salire.
"Non lo so ancora," ammise El, "ma non intendo aspettare che tutto crolli. Noi siamo pedine per loro, strumenti sacrificabili. Non otterremo nulla sottomettendoci. Voglio scoprire la verità, e so che anche tu vuoi di più di questa vita. Sei legato qui da un debito impossibile, ma non devi esserlo per sempre."
Kethmer abbassò lo sguardo, le parole che risuonavano nella sua mente. Non si fidava completamente di El, lo sapeva bene, ma quelle parole risuonavano anche dentro di lui. La verità era che voleva scappare da quel debito, da quella vita che lo teneva in catene. E lei, per quanto manipolatrice, gli stava offrendo una via di fuga.
Alzò lo sguardo, annuendo lentamente. "Va bene," disse infine. "Ma voglio sapere tutto. Come faremo, cosa cerchiamo, e cosa succederà se il tuo famoso signore della morte non sarà disposto a parlare."
El sorrise appena, un'espressione così rara che quasi lo sorprese. "Non preoccuparti. Saprò gestirlo." Poi aggiunse, più seria: "Ma se vieni con me, devi essere pronto a lasciare tutto. Una volta fatto questo passo, non ci sarà più ritorno."
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Kethmer annuì, consapevole che il suo opportunismo lo stava spingendo su un sentiero pericoloso, ma anche curioso di scoprire dove quel sentiero li avrebbe portati.
Passarono giorni, scanditi dai soliti allenamenti e dalla tensione che aleggiava come una nebbia attorno ai traduttori del silenzio. Il numero delle figure diminuiva, e i contratti di sabotaggio si facevano sempre più pericolosi. Quando arrivò l’ordine di una nuova missione, Kethmer sapeva già che sarebbe stata diversa. Era il momento che El aveva pianificato.
La squadra venne teletrasportata nelle terre di confine, vicine all’ennesimo accampamento di arcanisti. Fu un massacro veloce, senza gloria. I corpi degli arcanisti si accumularono sotto il peso dell’abilità del trio. Nessuno di loro fece domande; la squadra era diventata esperta nell'annientare i nemici senza pietà né esitazione.
Quando tutto fu compiuto, si radunarono attorno al cerchio di teletrasporto. Torvax, con il solito ghigno, chiese: "Allora, si torna a casa?"
El fece un cenno e rispose fredda: "Vai avanti, Torvax. Io e Kethmer dobbiamo fare alcune compere in città. Torneremo subito dopo."
Torvax sollevò un sopracciglio ma non fece domande. Annuì e si preparò per il teletrasporto. El pronunciò la formula, e in un attimo il nano scomparve nella luce del cerchio.
Kethmer rimase immobile, il fischio che saliva come un’onda nella sua mente. El si girò verso di lui, prendendo il gesso dalla borsa. "È il momento," disse. Tracciò con precisione il cerchio magico dato da Tariq, e il suo cuore batteva all’unisono con ogni tratto che completava. Kethmer respirò a fondo, il fischio quasi insopportabile.
El finì il cerchio, posò il gesso e lo guardò. "Pronto?"
Non rispose. Semplicemente annuì, lasciandosi trascinare dal momento. El lanciò l’incantesimo, e in un istante la realtà si distorse attorno a loro.
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Quando la luce svanì, si ritrovarono in un salone di marmo nero. L’aria era gelida, e i loro passi risuonavano mentre guardavano attorno a loro drappi bianchi che pendevano dalle pareti, lacerando il buio. Kethmer si accorse troppo tardi della presenza. Una dozzina di Mesvet armati circondava la stanza, le loro spade e lance scintillavano nel riflesso del marmo. Erano stati attesi.
Una figura avanzò dalla penombra, una donna alta, dalla pelle pallida e dai capelli bianchi intrecciati. Indossava una veste cerimoniale nera, adornata con ricami d’argento, e un diadema nero che brillava sul suo capo. I suoi occhi si posarono su El, e il suo sguardo gelido la trapassò.
"El Minari," disse la donna, con una voce che rimbombò nella stanza. El si inchinò immediatamente, abbassando il capo.
"Pretora Sasha Minari," rispose El, la voce tremante ma rispettosa.
Kethmer rimase paralizzato. Non capiva cosa stesse accadendo, ma sentiva il panico farsi strada nel suo petto. Si sentì improvvisamente un intruso in un gioco di potere che non poteva comprendere. Perché erano lì? Perché non erano stati uccisi a vista?
La Pretora si avvicinò a El, il suo sguardo pieno di un'autorità spietata. "La mia bambina," iniziò, con un tono che mescolava delusione e superiorità. "Mi hai delusa."
El sollevò appena lo sguardo, ma non osò rispondere.
"Lo sai quanto è importante la gerarchia per il nostro popolo," continuò la Pretora, camminando lentamente attorno a El come un predatore che studia la preda. "L’ubbidienza è ciò che ci ha mantenuti forti, ciò che ci ha permesso di sopravvivere a Dolor. Eppure, tu hai scelto la libertà. Una libertà che non ti appartiene."
Kethmer deglutì a fatica, sentendo il fischio aumentare. Voleva intervenire, ma non poteva muoversi. La Pretora continuò.
"La conoscenza," disse, fermandosi davanti a El, "è una lama a doppio taglio. Rende le creature errabonde, confuse, incapaci di gestire il proprio destino. Hai cercato la verità, e cosa hai trovato? Nulla, se non un vuoto che ti consuma."
Con un gesto, fece cenno alle guardie di uscire. Rimasti soli, il silenzio calò pesante come una coltre di neve. La Pretora guardò El con un’espressione glaciale.
"Xerinni, almeno, ha avuto l’intelligenza di non volerla sapere. Lei ha compreso il suo ruolo. Ha accettato la sua missione di osservarti. Ma tu, El... Tu hai fallito. Hai fallito perché hai voluto giocare a un gioco più grande di te."
Kethmer sentì il sangue gelarsi nelle vene. Ogni parola della Pretora era un colpo, un'accusa che rivelava un mondo di intrighi e segreti che non poteva neanche iniziare a comprendere. Ma ora, sapeva una cosa: erano in pericolo, e non c’era via d’uscita.
La Pretora Sasha Minari rimase immobile per un istante, osservando con distacco il volto di El e l’espressione sconvolta di Kethmer. Poi riprese, la sua voce fredda come il marmo del salone che li circondava.
"Le persone smaniose, viziose," disse, "sono prevedibili. Come il padre dell’elfo senza nome. Come te, El. E come loro, anche tu hai camminato a passo sicuro verso la trappola che avevo preparato per te. Ma senza saperlo, mi hai portato ciò che desideravo ardentemente. Un mistero per molti, per me una minaccia che non poteva essere tollerata."
El sembrava aver perso la sua compostezza abituale. Rimase muta, fredda come sempre. Kethmer sentiva il fischio crescere, ma non disse nulla, i suoi occhi fissi sulla Pretora.
"Ci sono voluti quasi due anni di indagini per trovarlo," continuò Sasha, il suo sguardo ora rivolto a Kethmer. "E ora che sei qui, in trappola, vuoi sapere perché?"
Kethmer, il corpo teso come una corda, annuì lentamente. Il fischio nella sua testa si fermò per un istante, come in attesa.
"Molto bene," disse la Pretora, un leggero accenno di disprezzo nella voce. "La realtà del passato è complessa. Non è fatta di luce e ombre nette, ma di sfumature che i deboli non possono tollerare. Per capire ciò che sei, dobbiamo tornare all'esilio del mio popolo, centinaia di anni fa. Dimmi, conoscete Ghilar'hunar?"
El rispose immediatamente, la sua voce incerta. "Sì. È l’autore di molteplici studi e libri sulla trasmutazione, considerato uno dei padri fondatori di quella scuola."
Sasha annuì, un sorriso glaciale si formò sul suo volto. "Corretto. Ma sai da dove provengono quelle conoscenze? Ghilar'hunar non era solo uno studioso. Era una leggenda. E non una leggenda qualsiasi. Era il nome mortale di una figura che molti di voi conoscono come il Dio del Cambiamento del pantheon elfico."
Kethmer sobbalzò, e anche El sembrava scossa. Entrambi si guardarono per un istante, poi tornarono a fissare la Pretora, increduli.
"La vostra sorpresa è comprensibile," continuò Sasha, con un tono che rasentava il sarcasmo. "Ma non sorprendetevi troppo. Gli 'Dèi', nella storia del nostro mondo, non sono altro che personaggi straordinari le cui conoscenze o poteri sono stati mitizzati dalla storia. Il Dio del Cambiamento non era che un tiranno. Uno scienziato folle che sperimentava sul suo stesso popolo, trasformandolo per soddisfare la sua sete di conoscenza. È da lui che provengono le basi della trasmutazione, apprese sulla pelle degli altri."
El provò a parlare, ma le parole le si bloccarono in gola. Sasha continuò, il suo tono diventando più duro, quasi tagliente.
"Fu anche per questo che ci ribellammo. Che rinneggiammo gli Dèi elfici. Il Dio del Cambiamento non fu l'unico, ma fu uno dei peggiori. E nonostante secoli di esilio e sofferenza, il suo sangue... il suo sapere... si è tramandato. Fino a voi."
Le parole di Sasha caddero come macigni. Kethmer provò a respirare profondamente, cercando di trovare un senso in ciò che stava sentendo. Ma il fischio tornò, più forte, come se le verità rivelate avessero aperto una porta dentro di lui che non poteva più essere chiusa.
La voce di Sasha si fece più lenta, carica di un’intensità fredda e velenosa. "Quando la nostra ribellione prese forza, molte tribù si unirono a noi. Gli Dèi, impauriti dalla possibilità di perdere il controllo, chiesero a Ghilar'hanur di cancellarci dall'esistenza per ribilanciare il potere."
El sembrava trattenere il respiro. Kethmer, per quanto confuso, ascoltava ogni parola con una tensione crescente.
"Ma neanche lui," continuò Sasha, con un tono che sembrava tagliare l'aria, "con tutto il suo potere, era in grado di distruggere intere tribù in poco tempo. Così decise di farci marcire lontano. Utilizzò la trasmutazione per teletrasportare le tribù ribelli direttamente all'interno di Dolor. Fu uno scempio. Quelle lande desolate e orrifiche divennero la nostra prigione. Non vi era riparo, né pace. Morivamo piano piano, attaccati dai discendenti degli Orgaal, quelle creature che avevano fatto di Dolor il loro regno."
El rabbrividì, immaginando l'inferno che la Pretora descriveva. Kethmer deglutì a fatica, sentendo il fischio crescere nella sua testa.
"Nel 374esimo piano di Dolor," continuò Sasha, la sua voce diventando più dura, "solo i più forti sopravvivevano. E come? Cannibalizzando i deboli. Era una sopravvivenza che sembrava inutile, un ciclo di orrore senza fine. Io stessa morii... dopo molto."
Kethmer si bloccò, confuso. La Pretora non sembrava mentire, ma le sue parole non avevano senso. "Se sei morta... come puoi essere qui ora?" chiese infine, con voce tremante.
Sasha lo fissò con occhi gelidi, ma ignorò la domanda. "Quando le tribù erano ormai ridotte a frammenti, quando sembrava che Dolor avesse vinto, la leggenda narra che una donna rimase. Era la più determinata di tutte, l'ultima sopravvissuta. E lì, in quelle profondità oscure, incontrò un’entità. Un Archilich."
La stanza sembrava diventare più fredda. Kethmer si sentì sprofondare, come se il peso delle parole lo schiacciasse.
"Quella donna," continuò Sasha, "chiese vendetta per il suo popolo. In cambio, diede tutto ciò che erano, tutto ciò che avevano. Fu così che gli esuli morti di Dolor si rialzarono. Non come mortali. Non come anime libere. Ma come servitori dell'Archilich."
L’elfo indietreggiò leggermente, gli occhi spalancati. Sasha continuava a fissarla, ma il suo sguardo ora sembrava quasi distante.
"Fu allora," disse Sasha, la sua voce diventando sempre più gutturale, "che nacquero i Mesvet. Loro non sono mai tornati realmente da Dolor. Ogni Mesvet di prima generazione è ancora legato a lui, al suo comando."
Poi, con un movimento meccanico e innaturale, il corpo di Sasha si irrigidì. La sua voce cambiò completamente, diventando profonda, gutturale, e colma di un'autorità oscura. "Al mio comando."
La stanza sembrava tremare leggermente, mentre Sasha si mosse verso di loro con passi pesanti e disarticolati, il suo corpo piegato sotto il diretto controllo dell'Archilich.
L'Archilich, con la voce gutturale che sembrava provenire dalle profondità stesse di Dolor, continuò la sua storia, il suo tono ricolmo di un freddo rancore e una terribile soddisfazione.
"Diedi ai Mesvet ritornati il potere necessario per compiere la loro vendetta," iniziò, la sua voce rimbombando nella stanza. "Con il mio dono, sterminarono i loro oppressori e quasi cancellarono gli elfi dalla storia. I loro dèi furono distrutti, la loro gloria spezzata. Ma la vendetta non fu mai completa."
El e Kethmer ascoltavano, entrambi immobili, consapevoli che ogni parola pronunciata dall'Archilich celava segreti millenari.
"Non volli che il mio giogo su di loro terminasse," proseguì, il tono carico di un'oscura maestria. "E così pochi elfi sopravvissero, abbastanza da conservare la loro esistenza legata al patto. Ma fu anche così che Ghilar'hanur, il dio del cambiamento, trovò il modo di sopravvivere. Con una tecnica proibita di trasmutazione, tramandò se stesso nei corpi degli elfi, nascondendosi tra loro e fuggendo al mio controllo."
L'Archilich emise un suono simile a un ruggito soffocato, una combinazione di rabbia e amara ammirazione. "Non potevo prevedere il suo astuto stratagemma. Ma poco importava, poiché avevo creato qualcosa di più prezioso: un esercito obbediente, forgiato dalla disperazione e dal sangue, dandomi un potere immenso in terra ignorato dagli occhi e dalle fiamme dei celesti."
Fece una pausa, e per un momento la stanza sembrò avvolta in un silenzio spettrale, come se l'intero mondo aspettasse il proseguimento della sua storia.
"Ma ci fu un imbroglio," disse infine, con un rancore così profondo che la temperatura sembrò calare ulteriormente. "L'incantesimo che mi fu dato da un demone... Un'arte proibita che mischiava necromanzia, cronomanzia, ematomanzia e trasmutazione a livelli inimmaginabili, mi permise di creare i Mesvet. Tuttavia, celava un'ironia crudele. L'incantesimo conteneva una condizione segreta sulla fertilità dei Mesvet."
El trattenne il respiro, il suo volto contrassegnato dalla confusione e dal terrore.
"All'inizio," continuò l'Archilich, "pensai che fosse un dono. I Mesvet avrebbero generato altri Mesvet, ampliando il mio esercito terreno. Ma presto scoprii l'inganno: i Mesvet di seconda generazione nascevano al di fuori del mio comando. Non erano legati a me, né alla mia volontà. Erano liberi."
La voce dell'Archilich si fece più bassa, un mormorio carico di rabbia. "Fu un'eresia che non potevo tollerare. Un affronto che infranse i miei piani. Eppure, i demoni... loro sapevano. Sapevano che la mia arma più potente sarebbe diventata la mia più grande debolezza."
El fissava la creatura con occhi dilatati, la sua mente travolta da ciò che stava scoprendo. Kethmer, nel frattempo, sentiva il fischio nella sua testa crescere fino a diventare quasi insopportabile. Non era solo rabbia o paura: era la consapevolezza che stava ascoltando segreti che nessuno avrebbe mai dovuto conoscere.
L'Archilich proseguì con una freddezza spietata, le sue parole come coltelli che affondavano nelle verità più profonde e oscure.
"Stabilii una gerarchia assoluta per mantenere il controllo," disse con il tono di chi enuncia un dogma eterno. "Le nuove generazioni, non potendo essere sottomesse magicamente, furono forgiate ideologicamente. Ogni tentativo di conoscenza al di là dei confini da me imposti veniva punito con la morte, e le menti più curiose venivano trasformate in marionette, asservite alla mia volontà. L'impero di Nogod non è altro che un'enorme incubatrice mascherata da rifugio accogliente, un'illusione per mantenere l'ordine."
El sussultò, come se un peso invisibile si fosse posato sulle sue spalle. L'Archilich la osservò con un'espressione inespressiva ma carica di giudizio.
"E tu, El, sei l'esempio perfetto di questo sistema. Hai scelto la libertà, ma non hai mai posseduto il diritto di farlo. Il tuo destino era già scritto, e come tanti prima di te, non sfuggirai alla tua sorte."
Kethmer, paralizzato dal panico e dalla confusione, non riusciva a staccare lo sguardo dall'Archilich, che ora si rivolse direttamente a lui.
"Quanto a te, guscio..." pronunciò con un tono che sembrava rimbombare nell'anima di Kethmer. "Tuo padre cercò per tutta la sua vita Ghilar'hanur, il dio del cambiamento. Lo trovò in un'elfa mercante nei deserti del lontano ovest e decise di avere un figlio con lei. Quell'atto non fu casuale: tuo padre pianificò tutto per far sì che tu, il suo unico erede, fossi nascosto nel nulla, ma sempre sotto la sua sorveglianza. Scelse una città dove poteva agire tramite i Traduttori, tenendoti al sicuro finché il momento non fosse giunto."
L'Archilich fece una pausa, come per permettere alla gravità delle sue parole di penetrare nella mente di Kethmer.
"Ma non fu solo questo," continuò. "L'eredità di Ghilar'hanur si celava dentro di te, abilmente nascosta in un guscio materiale, forse un amuleto, creando discrepanze attorno a te, fino a far dimenticare agli altri – e a te stesso – chi eri prima di accogliere la sua essenza. Tuo padre capì che il guscio, ovvero tu, avresti potuto risvegliare un potere che avrebbe minacciato tutto ciò che avevo costruito."
Kethmer sentiva il fischio nella sua testa crescere fino a diventare quasi assordante, e la sua mente lottava per afferrare ogni parola pronunciata dall'Archilich.
"Indagò tramite la cronomanzia," continuò la creatura, "per cercare cosa avrebbe potuto fermare il guscio di Ghilar'hanur. E l'arcano gli rivelò la risposta: l'affetto per una mesvet, El. Un'affezione che avrebbe condotto a un patto disastroso, stabilito dalla stessa El con Al'Khalil Gibran Medel, per cedere il suo primogenito. In un futuro, secondo le visioni di tuo padre, voi due avreste generato un figlio."
El e Kethmer si guardarono, entrambi colpiti da una verità che non avevano mai neanche sospettato. Il silenzio tra loro fu colmo di una tensione opprimente.
"Per evitare che ciò accadesse," continuò l'Archilich, con una calma glaciale, "tuo padre emanò un contratto per uccidere El Minari. Cercò di convincere i Traduttori facendo leva sulla loro avidità, ma pochi volevano rischiare l'ira della Pretora Sasha Minari. Coloro che accettarono fallirono e pagarono con la vita."
La creatura si mosse con lentezza, come se stesse assaporando il momento. "Fu allora che inviai Xerinni, la figlia di questo corpo, a infiltrarsi nei Traduttori per scoprire chi rappresentasse la minaccia. Fu lei a rintracciarlo, e grazie all'aiuto della regina e del re, gli tendemmo una trappola. Nonostante usasse la cronomanzia per cercare di sfuggirci, lo uccidemmo. Io presi il suo corpo e ne estrassi ogni frammento di conoscenza, scoprendo così te, guscio."
La stanza era gelida, e l'oscurità sembrava avvolgere Kethmer ed El. L'Archilich li osservava, come un predatore che ha già deciso il destino delle sue prede.
L'Archilich si fermò, osservando Kethmer ed El con occhi che sembravano scandagliare le loro anime. Il silenzio nella stanza era opprimente, interrotto solo dal respiro teso di Kethmer e dalla gelida compostezza di El. Poi, con una voce che sembrava risuonare nelle pareti di marmo nero, riprese a parlare, colmando lo spazio con la sua presenza.
"Il destino," disse, "è come una partita a scacchi. Ogni mossa conta, ogni pedina ha il suo ruolo, ma c'è sempre un momento in cui il controllo sembra sfuggire. Questo era avvenuto prima delle mie scoperte, quando tu, El, ha scelto di abbandonare e scappare da Nogod per unirsi ai Traduttori del Silenzio. Un desiderio di libertà, una sete di conoscenza che ha tradito la gerarchia e l'ordine che ho imposto."
El rimase immobile, lo sguardo fisso sulla figura che controllava sua madre come una marionetta. Il peso delle sue parole sembrava schiacciarla, ma nel suo sguardo c'era una scintilla di ribellione che non poteva essere ignorata.
"Quella scelta," continuò l'Archilich, "ha complicato i miei piani, perché il patto di non belligeranza stipulato tra me, i Traduttori del Silenzio e la loro regina mi legava. La consegna del padre di Kethmer era stata l'elemento chiave per garantire questo accordo, ma non potevo intervenire direttamente nel luogo in cui voi due vi siete rifugiati. Era una mossa geniale, quasi come perdere una partita per impostare una strategia più grande. Mi sono limitato a osservare da lontano, a manipolare dove potevo. La regina voleva nascondervi per sfruttare il vostro potenziale, forse spinta da qualcun altro."
Kethmer sentì il fischio nella testa intensificarsi. La sua mente rifiutava di accettare che tutto ciò fosse stato orchestrato così a lungo, che il destino l'avesse guidato in quella trappola inesorabile.
"Ma poi," l'Archilich fece un passo avanti, e la sua voce si fece più glaciale, "Maria ha attaccato Venetia. La vostra fuga dalla città ha inizialmente interrotto il legame tra Sasha e Xerinni, reso più difficile tracciare i vostri movimenti. La confusione creata da quell'attacco ha messo a rischio il mio volervi sviare per catturarvi fuori dalla protezione della regina. Per fortuna, la sete di conoscenza di El vi ha condotti dritti da Tariq."
Un sorriso sottile, ma privo di calore, si formò sul volto controllato di Sasha.
"Tariq, un vecchio alleato e conoscente, non si è fatto scrupoli a consegnarvi a me. Ora siete nelle mie mani, e posso finalmente completare ciò che era stato previsto. El sarà trasformata in una pedina obbediente, un ricettacolo perfetto per la mia volontà, e tu, Kethmer, sarai privato dell'essenza di Ghilar'hanur che porti dentro di te. Non sarete altro che strumenti, assimilati al mio disegno."
Improvvisamente, la risata di El risuonò fragorosamente nel salone oscuro, una risata che Kethmer non aveva mai sentito prima, naturale, quasi liberatoria, ma al tempo stesso terribilmente aliena. Era come se qualcosa di profondo e sconosciuto si fosse risvegliato dentro di lei. Il gelo invase Kethmer, che rabbrividì, sentendo una paura ancestrale farsi strada nel suo cuore.
Con una voce diversa, più profonda e vibrante, El parlò, interrompendo il monologo dell'Archilich.
"Sei davvero convinto di avere il controllo, vecchio spettro?" disse, la sua voce carica di sarcasmo e potere. "Davvero pensi che le visioni del padre di questo elfo fossero... originali? Che l’incantesimo che ti diedi non fosse parte di un progetto più vasto? Che tu fossi l’unico giocatore in questa partita?"
Gli occhi di El brillavano di una luce sinistra, e la sua figura sembrava tremolare, quasi come se qualcosa dentro di lei stesse cercando di emergere.
"Un vero giocatore di scacchi sa," continuò, "che ogni pezzo, fino alla regina, rimane una pedina. Ma il tuo errore è stato credere di essere il re. Non lo sei mai stato. Nemmeno io lo sono, ma questo non cambia ciò che succederà ora."
Il salone sembrò vibrare, e Kethmer si sentì schiacciare da una forza invisibile. El si gonfiò improvvisamente, come se il suo corpo stesse per esplodere, mentre una luce accecante iniziò a emanare da lei. L'Archilich, percependo il pericolo, lasciò immediatamente il controllo su Sasha, il corpo della Pretora crollò inerte sul pavimento.
El, o ciò che era diventata, emise un urlo primordiale, una detonazione di energia che spazzò via tutto. Il salone, le guardie Mesvet all'esterno, persino Kethmer, furono polverizzati in un'esplosione che annichilì tutto nel raggio di centinaia di metri. Un vuoto assoluto, privo di suoni, di materia, di vita.
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Kethmer aprì gli occhi. Si trovava in un campo desolato, il cielo sopra di lui era di un grigio opprimente, senza sole né stelle. Non sapeva quanto tempo fosse passato, né come fosse ancora vivo. Il fischio nella sua testa era scomparso, lasciando solo un silenzio assordante. Cercò di muoversi, ma il dolore nel suo corpo lo fece gemere.
Di fronte a lui, un portale si materializzò dal nulla, un cerchio di luce pulsante che emanava un richiamo silenzioso. Kethmer non aveva alternative. Strisciò verso il portale, la polvere secca sotto di lui graffiava la pelle.
Quando lo attraversò, sentì un freddo intenso, come se l'essenza stessa del suo corpo venisse analizzata e smembrata. Non sapeva dove stava andando, ma una cosa era chiara nella sua mente: era sempre stato una pedina, e forse lo sarebbe sempre stato.
Emerse dall'altra parte del portale in un luogo diverso, un ambiente che non riuscì a riconoscere subito. La sensazione di essere osservato era insopportabile, e la consapevolezza che il gioco era tutt'altro che finito lo colpì come un pugno nello stomaco.
Kethmer si rialzò lentamente, gli occhi pieni di dubbi e paure. Il mondo attorno a lui sembrava sussurrare una sola verità: non c'è libertà per una pedina.
La biblioteca era un luogo opprimente, costruita per contenere il sapere di ere dimenticate. Le pareti, nere come l’ossidiana, sembravano inghiottire ogni luce, e l’altezza della struttura faceva girare la testa. Gli scaffali si arrampicavano per centinaia di metri, pieni di tomi rilegati in pelle, alcuni pulsanti di una debole luminescenza inquietante. Il corridoio dove si trovava Kethmer era stretto, soffocante, e ogni passo sembrava amplificare il fischio nella sua mente.
La figura femminile si muoveva con grazia inquietante, un’ombra che levitava silenziosa tra gli scaffali, le sei braccia lunghe e sottili che sistemavano libri senza mai toccarli, come se il loro semplice contatto fosse sacrilego. Si voltò verso Kethmer, il volto privo di lineamenti chiari, un’ombra in perenne movimento. Parlò con una voce che sembrava riecheggiare in mille direzioni contemporaneamente.
"Benvenuto, Ghilar'hanur," disse con tono calmo ma glaciale. "Come è stato il viaggio, da una generazione all’altra? È stata lunga la tua ricerca, ma sei tornato, come previsto."
Quelle parole lo colpirono come un fulmine. Kethmer si irrigidì, il fischio nella sua mente diventò insopportabile, e improvvisamente una cascata di ricordi lo travolse.
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Era un giovane elfo smanioso di potere, consumato dalla sete di sapere e controllo. Poi vide se stesso, secoli prima, alla ricerca disperata di un demone per ottenere un frammento di conoscenza proibita. Un’altra immagine: la figura che aveva davanti, la sua maestra, quella che gli aveva insegnato la trasmutazione, il controllo del cambiamento. Poi divenne un tiranno che sperimentava sulla propria gente, trasformandola in aberrazioni viventi per il suo divertimento e per imparare i segreti della carne e della magia.
Un altro frammento lo mostrò mentre compiva l’esilio dei Mesvet, pronunciando l’incantesimo che avrebbe strappato intere tribù dal loro mondo per gettarle in Dolor. Poi lo vide: in fuga da ciò che aveva creato, in fuga dai Mesvet che cercavano vendetta. Vide il suo volto, un volto che cambiava continuamente, il suo nome sussurrato come una maledizione tra le ombre.
Poi, l’incantesimo. L’incantesimo per tramandare la sua essenza, fornito dalla figura davanti a lui, la sua maestra. Un rituale di trasmutazione che avrebbe permesso al suo spirito di continuare a vivere, nascosto nei discendenti della sua stessa stirpe. Vide ogni ospite, ogni elfo che aveva accolto la sua essenza nel corso dei secoli, ogni vita rubata per preservare la sua. Fino a Kethmer. Fino a quel momento.
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Il fischio culminò in un urlo straziante nella sua mente, e Kethmer crollò sulle ginocchia, tremando, mentre i ricordi di decine di vite si fondavano con la sua psiche.
Era Ghilar'hanur l’antico tiranno, un eretico, un esiliato.
Si alzò lentamente, il suo corpo tremava mentre i ricordi e la nuova consapevolezza si stabilizzavano dentro di lui. Gli occhi si alzarono per incontrare la figura.
"Il viaggio," disse, la sua voce ora più profonda, più sicura, "è andato come previsto. Come tu avevi previsto.
Devi essere soddisfatta di avermi usato come esca per centinaia di anni solo per colpire l’Archilich nei suoi domini." Fece un passo avanti, la sua postura più eretta, i movimenti più fluidi e controllati, mentre un ghigno deformava il suo volto.
"Sono tornato."