El seguì Grimvald lungo i corridoi silenziosi della torre, dirigendosi verso quella che un tempo sarebbe stata la biblioteca. La stanza era vuota, le pareti spoglie e gli scaffali in attesa di accogliere nuovi volumi. L'aria era pregna di una quiete solenne, interrotta solo dai loro passi.
Grimvald si fermò al centro della stanza, alzando una mano rugosa. Con un mormorio appena udibile, tracciò nell'aria intricate rune luminose. Un piccolo squarcio si aprì davanti a lui, una fenditura eterea che sembrava condurre in un altro spazio. Dalla tasca dimensionale emersero lentamente pile di tomi e pergamene, fluttuando come guidate da una corrente invisibile.
"Avrei bisogno del tuo aiuto per sistemare questi," disse lo gnomo, rivolgendole uno sguardo che brillava di un entusiasmo quasi febbrile.
El osservò affascinata la scena, avvicinandosi per prendere alcuni libri. "Sono copie di tutti i volumi della vecchia biblioteca?" chiese, lo sguardo che passava dai titoli familiari a quelli sconosciuti.
Grimvald sorrise con un lampo di follia negli occhi. "Certamente! Pensi davvero che avrei lasciato indietro tutto quel sapere? Mi ero già premunito nel caso fosse successo il peggio."
Lei annuì, ammirando la sua dedizione. "È rassicurante sapere che la conoscenza è al sicuro."
Mentre sistemavano i libri sugli scaffali, El si voltò verso di lui. "A proposito, gli incantesimi di protezione sulla villa e quello che la regina ha lanciato sul Lago della Disperazione... sono della scuola di abiurazione, vero?"
Grimvald fece un cenno di assenso. "Esatto. Quelli usati da lei sono potenti incantesimi di difesa e protezione. Purtroppo, non sono in grado di lanciarli personalmente. La mia specializzazione è nell'evocazione e nella trasmutazione."
El inclinò leggermente la testa. "È interessante come le diverse scuole di magia si intersecano."
Lo gnomo si fermò un attimo, riflettendo. "Sai, è affascinante pensare a come i diavoli abbiano sviluppato la scuola di abiurazione. L'hanno creata per proteggersi dalla scuola di distruzione dallo stesso Dolor, quando furono esiliati qui."
"Non ne ero a conoscenza," ammise El, sistemando un antico grimorio su uno scaffale alto. "Ma ha senso. La necessità spinge all'innovazione."
Grimvald si accarezzò la barba, gli occhi che scintillavano. "Ho una teoria al riguardo. Credo che abbiano appreso molti dei loro segreti proprio da Dolor e dalle tracce lasciate dagli Orgaal nel passato. Pensa a entità così terrificanti da riuscire a sigillare uno spirito grande quanto una città nel cielo, usandolo come una sorta di candela eterna."
El sentì un brivido. "Lo spirito che funge da sole in questo piano..."
"Esatto," confermò Grimvald. "È un pensiero inquietante, ma anche incredibilmente stimolante. Che tipo di conoscenza arcana possedevano per compiere un'impresa simile? E quali segreti potrebbero ancora essere nascosti qui, in attesa di essere scoperti?"
Mentre parlava, continuava a disporre i volumi con cura maniacale, ordinandoli per argomento e autore. El lo aiutava, passando libri e sistemando pergamene. L'atmosfera era carica di un'energia intellettuale, un connubio di curiosità e rispetto per il sapere.
"Vorrei approfondire questi argomenti," disse lei, "soprattutto riguardo agli Orgaal e alle scuole di magia ancestrali."
Grimvald le lanciò uno sguardo compiaciuto. "Sarai la benvenuta nei miei studi."
El sorrise leggermente. "Apprezzo l'opportunità. Credo che comprendere il passato sia fondamentale per affrontare il futuro."
Continuarono a lavorare in silenzio per qualche minuto, il solo rumore era il fruscio delle pagine e il leggero scricchiolio degli scaffali. La biblioteca cominciava a prendere forma, ogni sezione che si riempiva di conoscenza e storia.
"A proposito degli incantesimi di abiurazione," riprese El, "pensi che potrei impararli un giorno?"
Grimvald la guardò pensieroso. "Con la giusta dedizione e studio, credo di sì. Ma richiedono una comprensione profonda delle leggi magiche e una disciplina mentale notevole. Non è un percorso facile."
"Sono pronta a fare il necessario," affermò lei con determinazione.
"Non ne dubito," sorrise lo gnomo. "Inizieremo con le basi, poi vedremo fin dove potrai spingerti. Ma prima dovrai concentrarti sulla trasmutazione per riuscire a utilizzare il cerchio di teletrasporto liberamente con la tua squadra."
Il tempo sembrava scorrere più velocemente, immersi com'erano nelle loro conversazioni e nel lavoro. La biblioteca, da stanza vuota, si era trasformata in un santuario del sapere, pronta ad accogliere menti curiose e studiosi appassionati.
Nella sala d’addestramento, l’aria vibrava sotto il ritmo cadenzato dei colpi. I pugni di Kethmer si schiantavano sulle parate di Decimo, mentre l’orco rispondeva con affondi che sfioravano la rapidità letale. Il suono della pelle contro la pelle riempiva l’ambiente, disturbando le pedine che sistemavano le rastrelliere.
Kethmer strinse i denti, il corpo già segnato dalla fatica, ma non poteva cedere. Era passato più di un anno da quando aveva iniziato a seguire gli insegnamenti di Decimo, e sentiva finalmente di tenere testa all’orco. Non c’era superiorità nei loro scambi, solo una competizione silenziosa, un intesa tra sopravvissuti.
"Stai migliorando," ammise Decimo, bloccando un altro colpo con il braccio massiccio. "Ma ti manca ancora qualcosa."
Kethmer, ansimando, si fermò per un attimo. C’era una domanda che lo tormentava da tempo, ma non aveva mai trovato il coraggio di porla. Ora, in quella quiete spezzata dal suono della fatica, decise di rischiare.
"Com’era mio padre?" chiese, il tono quasi esitante.
Decimo abbassò le mani. Lo sguardo del colosso si fece cupo, ma non ostile. "Tuo padre?" mormorò, il nome scivolando come una lama arrugginita dalla memoria. "Era un alfiere, uno dei più temuti."
Kethmer sgranò gli occhi. Un alfiere. Non aveva mai immaginato suo padre in quella posizione. Decimo, vedendo la sua espressione, continuò.
"Era temuto non per la forza bruta, ma per la sua conoscenza della cronomanzia. Era una rarità, persino tra i Traduttori. L'arte di piegare il tempo, derivata dagli elfi antichi... un potere dimenticato dai più. Me ne ha parlato Grimvald."
Kethmer ripensò alle lezioni dello gnomo, accenni sparsi sulla complessità della cronomanzia, sul suo essere un’arte arcana quasi proibita, residuo di una cultura antica spazzata via dai Mesvet. Una magia che sfidava le leggi stesse della realtà.
"Ma non era un assassino nel senso comune," aggiunse Decimo, riprendendo il ritmo dell’allenamento. "Era uno storico. Studiava, annotava, viveva più nei libri che tra le lame. Però i suoi contratti li portava a termine, sempre."
Un pugno colpì l’aria, e Kethmer parò d’istinto, il suono secco che rimbalzò sulle pareti. Decimo fece un passo indietro, alzando un sopracciglio.
"Il re lo odiava."
Kethmer si irrigidì. "Perché?"
"Perché era... troppo indipendente," rispose Decimo con un ghigno che non nascondeva l’amarezza. "Non faceva squadra, non seguiva ordini. Viveva rinchiuso, isolato, comparendo solo quando necessario. Ma il re lo rispettava, a modo suo. Come si rispetta un nemico difficile da abbattere."
Il peso delle parole dell’orco era tangibile. Kethmer sentiva il sudore scivolare lungo la schiena, ma anche un brivido, come se un’ombra lontana si fosse insinuata nella sala.
"Strano," continuò Decimo, spezzando il silenzio. "Nessuno ti ha parlato di una cosa."
Kethmer alzò lo sguardo. "Cosa intendi?"
Decimo si fermò, fissandolo dritto negli occhi. "Ora che sei una torre, puoi accedere al suo contratto che ti ha legato a noi. Nessuno ti obbliga a portare avanti il debito da pedina. Puoi rilevare il contratto di tuo padre."
Il cuore di Kethmer perse un battito. Le parole rimbombavano nella sua mente. Il contratto di suo padre. Per anni aveva vissuto come pedina, senza mai interrogarsi su cosa lo avesse portato lì. Ora, quella possibilità lo divorava dall’interno.
"Dovresti parlarne al re," concluse Decimo, la voce ferma, quasi un comando.
Kethmer rimase immobile per un istante, poi annuì lentamente. Il pensiero di affrontare il re lo terrorizzava, ma sapeva che Decimo aveva ragione.
"Grazie," mormorò, riprendendo la posizione di guardia.
"Non ringraziarmi ancora," rispose l’orco con un ghigno, sferrando un colpo diretto. "Allenati. Non sai cosa c’è dietro a quel contratto."
Continuarono fino allo sfinimento, i colpi che riecheggiavano come tamburi di guerra, accompagnando le domande senza risposta che rimbombavano nella mente di Kethmer. Il sudore, il dolore, il fischio che cresceva e svaniva tra gli intervalli.
Quando infine crollarono a terra, esausti, Kethmer guardò il soffitto della sala d’addestramento. La mente era un turbinio di immagini: suo padre, la cronomanzia, il contratto. Ma soprattutto, il dubbio.
Era pronto a scoprire la verità?
La notte era silenziosa, il corridoio deserto, ma il cuore di Kethmer martellava con un ritmo incessante. Ogni passo lo avvicinava alla verità che lo tormentava, il debito che non sapeva di portare. Le torri che incontrava lungo il cammino si limitavano a cenni di assenso, e ogni gesto aumentava l’inquietudine.
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Quando raggiunse il penultimo piano, la vista della regina seduta sul trono e del re in piedi accanto a lei lo colpì come un colpo d’ascia. La stanza sembrava congelata nel tempo, l’aria densa come una coltre invisibile.
"Torre," disse il re, con un tono freddo ma non ostile. "Cosa desideri?"
Kethmer deglutì. Ogni parola gli pesava in gola, ma non poteva più tirarsi indietro. "Chiedo il permesso di rilevare il contratto di mio padre," disse, inchinandosi con reverenza.
L’atmosfera si fece ancora più opprimente. Il fischio si intensificò, un segnale d’allarme che rimbombava nella sua testa. Il re lo fissò, immobile, prima di rispondere.
"Potresti," disse lentamente. "Ma la domanda non è se puoi, ma se vuoi."
Kethmer si irrigidì, il sudore che scivolava lungo la schiena. La regina non disse nulla, ma la sua presenza era palpabile, come un’ombra che lo osservava da ogni angolo della stanza.
Il re si voltò, camminando verso uno scaffale carico di pergamene. Ne prese una, vecchia e impolverata, la carta fragile come se potesse sgretolarsi al minimo tocco. Tornò da lui e gliela porse.
"Ecco il contratto di tuo padre," annunciò.
Con mani tremanti, Kethmer aprì la pergamena. Le lettere sbiadite tracciavano un messaggio che gli gelò il sangue.
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Richiesta: Assassinare El Minari. Razza: Mesvet.Età: 27 anni. Altezza: 1,63. Corporatura: Esile. Capelli: Bianchi. Luogo di residenza: Nogod. Taglia: 950.000 monete d'oro.
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Kethmer si sentì precipitare in un abisso. La sua mente rifiutava di accettare ciò che leggeva. El? La sua compagna di squadra, l’artefice di quella loro macabra alleanza, era il bersaglio di quel contratto.
"Non capisco," mormorò, stringendo la pergamena come se fosse l’unica cosa a tenerlo ancorato alla realtà. "Perché? Perché un contratto così alto su di lei? Perché è ancora viva? Perché mio padre è morto dopo averlo accettato?"
Il re rimase impassibile. Il suo sguardo era una sentenza muta. La regina continuava a osservarlo, immobile come una statua, i suoi pensieri celati dietro la maschera inespressiva.
"Restituiscimi la pergamena," ordinò il re, porgendo una mano.
Kethmer eseguì, esitante, ancora immerso nella confusione. Le sue domande restavano sospese nell’aria, senza risposta.
"Il mondo è più complesso di quanto immagini," dichiarò il re, la voce che echeggiava con una calma inquietante. "Tuo padre lo scoprì troppo tardi."
Kethmer rimase in silenzio. Il fischio svanì all’improvviso, lasciandolo vuoto, svuotato di ogni emozione. Non c’era rabbia, non c’era paura, solo un mare di dubbi che lo soffocava.
Mentre si inchinava per congedarsi, uno sguardo fugace verso la regina gli fece provare un brivido. Dietro la maschera, qualcosa si agitava, un segreto che non era ancora pronto a rivelarsi.
Scese le scale lentamente, il suono dei suoi passi che rimbombava nel silenzio. Nella sua mente, le parole del re e la pergamena si mescolavano in un vortice oscuro.
Chi era veramente El Minari? E cosa significava per lui quel contratto?
Kethmer attraversò i corridoi sotterranei come una tempesta. I suoi passi rimbombavano nelle mura spoglie, e ogni eco gli sembrava un richiamo al caos dentro di lui. La confusione e il fischio si intrecciavano, amplificandosi a vicenda, fino a renderlo incapace di distinguere i pensieri dalla disperazione.
Si fermò davanti alla porta della stanza di El. Senza esitare, bussò furiosamente.
La porta si aprì con un cigolio, rivelando la figura minuta della Mesvet. I suoi occhi lo scrutarono con una miscela di noia e fastidio. "Cosa vuoi, Kethmer?" domandò, con tono tagliente.
"Voglio conoscerti," rispose lui, senza esitazione.
El alzò un sopracciglio, sorpresa. La sua mano si appoggiò alla porta come a volerla richiudere. "In che senso?" chiese, il tono ora carico di diffidenza.
Kethmer entrò senza invito, il suo corpo una molla pronta a scattare. "Le tue origini," disse. "Come sei finita tra i Traduttori. Voglio sapere."
El chiuse la porta alle sue spalle, il viso contratto in una smorfia di sospetto. Si avvicinò, appoggiando una mano sulla sua fronte, "Stai bene? Sei malato?"
Lui l’afferrò per le spalle. La stretta non era violenta, ma le sue mani tremavano. "È importante," sibilò.
La Mesvet lo guardò dritto negli occhi. Per un istante, sembrò vacillare. Poi il suo volto si trasformò, indurendosi in un'espressione di sadico disprezzo. "La conoscenza è un'arma, Kethmer," disse, fredda. "Io la uso contro di te, non il contrario."
"El Minari," disse Kethmer, la voce un sussurro, ma con un peso tale da riempire la stanza.
Gli occhi di El si spalancarono. La sua mano scattò in un gesto fluido, e un dito si puntò sotto il mento di Kethmer. Dal suo indice si sprigionò una spirale di fumo denso, il suo tocco carico di minaccia. "Come fai a sapere il nome della mia casata?" sibilò, velenosa.
Kethmer non si mosse. Il fumo gli bruciava la pelle, ma il suo sguardo era fermo. "Tra di noi, nessuno ha il pugnale dalla parte del manico. Non io, non tu. Devi fidarti di me."
"No."
La parola esplose nell’aria come una sentenza. El mosse il dito. Il fumo si condensò in un lampo accecante. L’incantesimo sciolse il volto dell’elfo in un istante, lasciandolo cadere al suolo come una marionetta senza fili.
Il silenzio calò nella stanza. Il corpo di Kethmer tremava sul pavimento, la pelle rigenerandosi lentamente. Il processo era doloroso, ogni cellula che si ricostruiva sembrava urlare.
El lo guardò da sopra, gelida. Aspettò che i suoi occhi tornassero a fissarla prima di parlare. "Non sai quanto mi tenti," disse, la voce un sibilo velenoso. "Ma ora so che non posso ucciderti, e tu sai che non puoi piegarmi."
Kethmer rimase a terra, il suo respiro pesante. Ogni battito del cuore era un dolore lancinante, ma non osava replicare.
"Ora vattene," disse El, il tono tagliente come una lama. "E non tornare."
Kethmer si alzò lentamente. Ogni movimento era un promemoria della sua sconfitta. Uscì dalla stanza senza dire una parola, ma con la mente in subbuglio. Non aveva trovato risposte, ma le domande erano aumentate.
Dietro di lui, El rimase immobile, lo sguardo fisso sul pavimento. Il suo dito tremava, e per un istante la maschera di freddezza si incrinò. Poi strinse i pugni e tornò a fissare la porta chiusa.
I giorni scorrevano come sabbia nel vento, e la routine della nuova dimora si consolidava lentamente. El passava le sue giornate con Grimvald, concentrata sul teletrasporto, testando e perfezionando ogni dettaglio sotto l’occhio vigile del suo maestro. Ogni tanto il fumo danzava incerto, ma la sua determinazione rimaneva salda, uno specchio della sua ambizione.
Kethmer, nei momenti di libertà, decise di approfittarne. La sua mente era un turbine di domande, e sapeva che Grimvald deteneva almeno alcune delle risposte. Una sera, lo trovò nella biblioteca, intento a catalogare altri tomi salvati dalla vecchia villa.
"Maestro Grimvald," iniziò Kethmer, il tono rispettoso ma fermo. "Posso rubarti qualche minuto?"
Lo gnomo sollevò lo sguardo, scrutandolo con occhi stanchi ma penetranti. Con un gesto della mano lo invitò a sedersi. "Parla, pure."
Kethmer si sedette, cercando di nascondere la tensione che gli attanagliava il petto. "Vorrei sapere qualcosa sulla casata Mesvet Minari."
Grimvald si irrigidì, il suo volto divenne una maschera di cautela. Si prese un momento per rispondere, appoggiando con cura il tomo che stava sfogliando. "E perché mai una domanda del genere, Kethmer?"
"Sto cercando di capire," rispose, "chi sono veramente i Mesvet, e perché certe figure sono qui tra di noi."
Lo gnomo sospirò, un peso invisibile che sembrava schiacciarlo. Alla fine, cedette. "Molto bene. Ti dirò ciò che so, ma sappi che queste non sono informazioni che divulgherei a cuor leggero. Ho condotto ricerche per anni, ma mai ho pubblicato i miei risultati. Le implicazioni sarebbero troppo pericolose."
Grimvald si alzò e iniziò a camminare avanti e indietro, il tono della sua voce basso e carico di tensione. "I Mesvet non muoiono di vecchiaia, almeno così pare. E c’è un dettaglio ancora più contorto. La loro fertilità"
Kethmer lo guardò, incuriosito e inquieto allo stesso tempo.
"Con un gene dominante," continuò Grimvald, "qualsiasi razza si accoppiasse con un mesvet darebbe sempre lo stesso risultato: un altro mesvet."
Il silenzio nella stanza divenne insopportabile.
"È... assurdo," mormorò Kethmer.
Grimvald annuì. "Riflettici, però. Una fertilità dominante, l'auto-conservazione più alta di sempre. Una sorta di equilibrio oscuro, se vogliamo."
Kethmer rimase in silenzio, il peso di quella rivelazione si insinuava nella sua mente come una lama sottile.
"Ma c’è di più," continuò Grimvald, con una voce che si fece più grave. "La casata Minari non è una casata qualunque. È una delle casate di prima generazione."
"Di prima generazione?" chiese Kethmer, confuso.
"Sì," spiegò Grimvald. "Le prime tribù che sono ritornate da Dolor. Sono tra i fondatori della loro attuale civiltà. Le radici della casata Minari affondano nel più profondo di quel luogo maledetto. Dai dati storici sembrano avere centinaia di anni."
"E cosa c’entra con me?" chiese Kethmer, incapace di trattenersi.
Grimvald lo fissò con uno sguardo enigmatico, come se stesse valutando quanto rivelare. Alla fine, con un tono pacato ma deciso, disse: "El non è l’unica della casata Minari tra di noi."
Kethmer lo guardò, spaventato e confuso. "Chi altro?"
Grimvald fece una pausa, poi pronunciò un nome che suonò come una sentenza: "Xerinni Minari."
La mente di Kethmer vacillò. La cavallo Mesvet, con i suoi capelli bianchi e il suo aspetto spettrale, era della stessa casata. Le connessioni tra quei fili sparsi iniziavano a intrecciarsi, ma il quadro che emergeva era cupo e pieno di ombre.
"Grazie, maestro," mormorò alla fine, la voce debole. Si alzò e lasciò la stanza, le domande nella sua mente si moltiplicavano con ogni passo.
Tornò ai suoi allenamenti, ma la sua concentrazione era spezzata. Ogni colpo, ogni movimento, portava con sé l’eco di ciò che aveva appena appreso. Chi erano davvero i Mesvet? E quale parte aveva lui in questo intricato gioco di ombre e sangue?
Le giornate nella torre scorrevano lente, ma la mente di Kethmer era un fiume in piena. Ogni pensiero sembrava condurlo verso un unico punto: Xerinni Minari. Le rivelazioni di Grimvald lo avevano lasciato inquieto, e il mistero che avvolgeva El sembrava addensarsi sempre di più.
Deciso a cercare risposte, iniziò a cercare Xerinni nei giorni successivi, ma la Mesvet sembrava svanita nel nulla. Nessuno sapeva o voleva dire dove si trovasse. Alla fine, si rivolse a Torvax, il nano sempre sarcastico e in vena di battute.
"Hai idea di dove sia Xerinni?" gli chiese, il tono carico di tensione.
Torvax lo fissò con un sorriso largo e maligno. "Tu la cerchi, eh? Beh, ragazzo, lascia che ti dia un consiglio. Lei non si fa trovare. È lei che trova te. Tieniti pronto e... guardati le spalle."
Quelle parole rimasero nella mente di Kethmer.
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Era notte fonda quando, stremato dagli allenamenti, decise di andare nella latrina. La torre era immersa in un silenzio innaturale, rotto solo dai suoi passi. Raggiunse la latrina, ma appena varcata la soglia, sentì qualcosa di freddo e affilato poggiarsi sul collo.
"Perché mi cerchi?"
La voce era bassa, carica di minaccia. Non c’era bisogno di voltarsi per capire: Xerinni lo aveva trovato.
Kethmer si irrigidì, il fischio ruggiva dentro di lui, ma si costrinse a restare calmo. "Xerinni Minari," disse lentamente, scandendo ogni sillaba.
Lei ridacchiò, il suono gelido come una lama che graffia il metallo. "Sei uno stupido, lo sai? Dimmi cosa vuoi, prima che decida che non vale la pena ascoltarti."
"Voglio sapere di più su El," rispose, cercando di mantenere il controllo, nonostante il fumo della lama sembrasse bruciare la sua pelle.
Xerinni rimase in silenzio per un istante, poi spostò la lama di qualche millimetro, sufficiente per farlo respirare. "E perché?" chiese con tono mordace.
"Per affetto," rispose, sincero.
La Mesvet scoppiò a ridere, una risata amara e piena di disprezzo. "Affetto," ripeté, ritirando la lama e, senza preavviso, gli assestò un pugno nei reni, facendolo piegare su se stesso.
"El è una bambina viziata, cresciuta nel lusso e nell’adorazione," disse, guardandolo dall’alto mentre lui cercava di riprendere fiato. "Nulla di ciò che credi di sapere su di lei conta davvero."
Prima che potesse rispondere, Xerinni era già sparita. Non un rumore, non un’ombra: solo il dolore nei reni e il peso delle sue parole rimanevano.
Kethmer rimase immobile per qualche istante, il fischio martellava nella sua testa. Xerinni aveva detto la verità? Oppure aveva distorto le sue risposte come un’arma? Non c’era modo di saperlo. Tornò nella sua stanza con il corpo dolorante e la mente ancora più confusa.