Novels2Search
Acufene [Italiano]
Capitolo IX: Cambiamento forzato

Capitolo IX: Cambiamento forzato

Il corridoio era immerso in un silenzio inquieto mentre Kethmer seguiva la figura imponente della torre. L’orco sembrava un monolite in movimento, ogni passo risonava come un monito. Il suo fianco sinistro, tuttavia, tradiva un’ombra di vulnerabilità: una ferita ancora fresca, che pulsava di un rossore rabbioso, appena coperta da un’imprecisa cucitura. Il tessuto intorno era scuro di sangue rappreso, una testimonianza di un recente confronto con la morte.

Kethmer, incapace di ignorare quella cicatrice, ruppe il silenzio. “Com’è andato il contratto?” chiese, la voce intrisa di un misto di curiosità e rispetto.

La torre non rallentò il passo, ma un ghigno soddisfatto si disegnò sul suo volto. “Un avversario degno,” disse, il tono greve e pieno di un orgoglio primordiale. “Un Mesvet. Una bestia insediata in un villaggio, con un esercito di morti a suo comando. Ha ucciso chiunque gli fosse intorno, seminando rovina come fosse la pioggia d’autunno. Eppure, sono riuscito a distruggerlo, pezzo dopo pezzo.”

Le parole dell’orco dipinsero un’immagine brutale nella mente di Kethmer. Un’ombra solitaria che si faceva largo tra una massa di carne rediviva, fendendo il caos con la possanza d’un martello. Pensò a quel villaggio dimenticato, fuori dai confini dell’Impero Umano, un luogo dove il grido di un bambino poteva dissolversi senza eco e dove la vita era una moneta senza valore. La via della polvere, la strada che attraversava quelle terre, era il sangue di un collettivo di mercanti. E quei mercanti, disperati, avevano chiamato i Traduttori del Silenzio.

Kethmer abbassò lo sguardo, il peso della narrazione che si depositava su di lui. Guardò di nuovo la cicatrice dell’orco, un solco irregolare che parlava di lotta e sopravvivenza. Per la torre, non era una ferita, ma un trofeo. Una cicatrice che dichiarava al mondo: “Sono tornato indietro da dove altri sono scomparsi.”

“Qualcuno al mondo è sempre più forte di noi,” disse l’orco, fermandosi per un istante. Il suo sguardo era fisso su un punto indefinito davanti a lui, come se stesse parlando non solo a Kethmer, ma a ogni creatura che respirava. “E quel qualcuno è sempre sulla soglia della nostra casa, pronto a venire a prenderci. È per questo che combattiamo. Perché il giorno che verrà, voglio che assaggi la mia forza.”

Kethmer annuì, ma rimase in silenzio. Le parole dell’orco si radicarono nel suo animo come semi gettati su una terra in tumulto.

----------------------------------------

Gli allenamenti ripresero con una ferocia rinnovata. Le lame cantavano nell’aria, i pugni si abbattevano come martelli su incudini invisibili, e il sudore cadeva come pioggia. Ma per Kethmer, ogni movimento era diverso. Ogni colpo che sferzava l’aria era un tentativo di misurarsi con quell’ombra sconosciuta che l’orco aveva descritto. Un nemico invisibile, fatto di paura e possibilità, che attendeva nell’oscurità.

L’orco lo osservava, soddisfatto. “Non devi temere la sconfitta, microbo,” disse. “Temi solo il giorno in cui non troverai più nessuno da combattere. Quel giorno saprai di essere morto davvero.”

La lama lunga tagliava l’aria con precisione, il sibilo che accompagnava ogni colpo si fondeva al suono sordo dei pugni che Kethmer scagliava contro il vuoto. L’orco, massiccio e instancabile, osservava da una distanza appena sufficiente, con le braccia incrociate sul petto. I suoi occhi seguivano ogni movimento dell’elfo, studiandolo come un fabbro osserva il metallo nella fornace.

“E allora?” chiese, rompendo il ritmo dell’allenamento. “Com’è andato il tuo tempo con l’alfiere? Ha fatto entrare un po’ di fumo in quella tua testa dura?”

Kethmer si fermò un istante, asciugandosi il sudore dalla fronte. Il ricordo degli esercizi con l’alfiere riaffiorò, le lezioni dense e criptiche che avevano scavato nelle sue limitate comprensioni della magia. “È stato… diverso,” rispose, scegliendo le parole con attenzione. “Mi ha insegnato a vedere le cose da un’altra prospettiva. Ma non saprei dire se quelle prospettive mi appartengono davvero.”

L’orco ridacchiò, un suono profondo e gutturale che sembrava scuotere le mura della sala d’allenamento. “Io non ci ho mai capito nulla di tutti quegli arcanismi strani,” ammise, facendo un gesto vago con una mano massiccia. “Fumo, incantesimi, illusioni… Non è roba per me. Ma ti dirò una cosa: una volta quell’alfiere mi ha salvato la pellaccia. Senza di lui, non saremmo qui a discutere.”

Kethmer inclinò la testa, curioso. “Davvero?”

L’orco annuì, ma non aggiunse dettagli, tornando invece a osservare l’elfo con uno sguardo indagatore. “A proposito,” disse dopo un momento di silenzio, “sai che qualcun altro ha messo gli occhi su di te?”

Kethmer si fermò, fissando l’orco. “Chi?”

“Il cavallo,” rispose l’orco, il tono grave. “La Mesvet della Chiesa. Ha chiesto di te.”

Un’ondata di disappunto attraversò Kethmer. Il cavallo. Una figura che lo inquietava, ma che non aveva mai avuto modo di affrontare direttamente. “Perché?” chiese, cercando di nascondere il nervosismo.

L’orco scrollò le spalle, ma il suo sguardo si fece più cupo. “Non lo so, ma ti do un consiglio. Non averci a che fare. Quella Mesvet odia terribilmente quelli come te.”

Kethmer serrò i pugni. “Elfi?” chiese, il tono carico di amarezza. “Ancora l’odio per colpe che non mi appartengono?”

La torre lo fissò, i suoi occhi ridotti a due fessure dure e giudicanti. “Non sai nulla di Dolor, microbo. Non puoi capire cosa significhi vivere lì. Quello che hanno visto… quello che hanno subito. Non è solo un odio per i tuoi antenati. È molto più profondo.”

Kethmer si voltò, le parole dell’orco che rimbombavano nella sua mente come un’eco pesante. Dopo un lungo momento, si girò di nuovo verso la torre. “E tu?” chiese, la voce appena un sussurro. “Hai mai visto Dolor con i tuoi occhi?”

L’orco rimase in silenzio per un istante, poi annuì lentamente. “Sì,” disse, il tono basso e carico di ricordi. “C’ero andato, una volta. Anni fa. Fu un contratto terribilmente difficile. Io, l’alfiere e il cavallo. Eravamo nei primi piani di Dolor, quelli più ‘abitabili’, se così puoi chiamarli.”

“Cosa stavate cacciando?” chiese Kethmer, la curiosità che superava il timore.

“Un diavolo,” rispose l’orco. “Per conto di un altro diavolo.” Il sorriso che seguì era amaro, quasi beffardo. “Non c’è logica in quel posto, solo orrori che si nutrono l’uno dell’altro.”

Kethmer sentì un brivido attraversargli la schiena. Dolor non era solo un luogo di esilio e tormento, ma un labirinto vivo, in cui il male si intrecciava su se stesso. Ma ciò che lo colpiva di più era la calma con cui l’orco parlava, come se anche quei ricordi non potessero scalfire la sua corazza.

“E siete tornati vivi,” disse Kethmer, quasi per confermare a se stesso che fosse possibile.

“Se lo vuoi chiamare vivere,” rispose l’orco, con una risata gutturale. “Ma sappi questo: Dolor lascia un segno su chiunque lo attraversi. E il tuo cavallo, la Mesvet, ne porta più di quanti ne possa nascondere.”

Kethmer si rimise in guardia, ma il peso delle parole dell’orco continuava a gravare su di lui. Le cicatrici visibili erano facili da rispettare. Quelle invisibili, invece, erano molto più difficili da comprendere.

Il clangore della lama lunga di Kethmer che si abbatteva contro quella dell’orco riempiva l’aria come un canto metallico. Ogni movimento dell’elfo era misurato, preciso, ma l’orco rimaneva implacabile, una montagna che sembrava prendersi gioco di ogni assalto.

Dopo un altro scontro finito con una parata devastante dell’orco, Kethmer abbassò la spada e respirò a fondo. “Come sono i diavoli?” chiese, rompendo il ritmo con una domanda che sembrava quasi sussurrata.

L’orco si fermò, appoggiandosi al pomo della sua spada con fare pensieroso. “Arguti,” rispose, la voce greve che sembrava scavare nell’aria. “Bastardi. Intelligenti come nessun’altra creatura. Ma soprattutto, pazienti. Sanno aspettare il momento giusto per colpire, e quando lo fanno, non sbagliano mai il bersaglio.”

Si tolse un guanto con lentezza, osservando il palmo della sua mano, segnato da cicatrici ormai sbiadite. “Il mito narra,” continuò, “che molto tempo fa, quando ancora gli Orgaal vagavano liberi per queste terre, diffondendo caos e sottomissione, i celesti scesero dal cielo. Non erano misericordiosi. La loro epurazione fu totale, una tempesta di magia della distruzione che ridusse il mondo quasi in cenere.”

Kethmer fissò l’orco, che parlava come un narratore antico, il tono pieno di un sapere lontano. “Non furono solo gli Orgaal, poi frammentati in demoni, aberrazioni e non morti, a fuggire verso Dolor. Anche molte razze umanoidi cercarono rifugio lì, spinti dalla paura e dalla disperazione.”

“E sopravvissero?” chiese Kethmer, il fischio nelle sue orecchie che sembrava quietarsi mentre ascoltava.

“Non tutti,” rispose l’orco, il tono più basso. “Dolor non è un rifugio. È una trappola. Quelle razze che ci entrarono non solo dovettero adattarsi a vivere in un posto maledetto, ma dovettero anche imparare a sopravvivere agli Orgaal che erano rimasti. I diavoli, tra tutte, furono quelli che più si adoperarono per prosperare.”

L’orco fece un gesto vago con la mano, come per scacciare un pensiero scomodo. “Hanno una mentalità simile ai Mesvet. Freddi, spietati. Ma i diavoli… sono molto più scaltri. Molto più emotivi. Dove i Mesvet ti uccidono con calcolo e indifferenza, un diavolo ti uccide con passione. Ti conosce, ti sonda, ti seduce. Ti fa sentire speciale, poi ti strappa il cuore dal petto.”

Kethmer rabbrividì, ma cercò di non mostrarlo. “E vivono solo a Dolor?”

“Nei primi duecento piani,” rispose l’orco, con un cenno del capo. “Lì, la malattia di Dolor è ancora accettabile. I diavoli si sono insediati e hanno creato le loro società. Intrighi, tradimenti, commerci. Un caos controllato.”

“E i Mesvet?” chiese Kethmer, con una nota di sfida nella voce.

L’orco lo fissò, i suoi occhi due pozzi scuri che sembravano scavare nell’anima dell’elfo. “I Mesvet furono esiliati dopo il quattrocentesimo piano,” disse, il tono ora più cupo. “Un luogo che non vorrei mai vedere con i miei occhi. Lì non c’è più nulla di umano o riconoscibile. Solo Dolor nella sua forma più pura. Sopravvissero, certo. Ma a quale prezzo? Non lo voglio sapere.”

Kethmer si zittì, il peso delle parole dell’orco che si insinuava in lui come un’ombra. Dolor non era solo un luogo. Era una ferita nel tessuto stesso del mondo, un abisso che inghiottiva tutto ciò che vi entrava, trasformandolo in qualcosa di irriconoscibile. E per la prima volta, Kethmer si chiese cosa fosse realmente il legame tra Dolor e i Mesvet. E tra Dolor e lui.

La villa sembrava pulsare di vita, ogni stanza vibrante di mormorii e passi affrettati. Kethmer, trascinato da un’improvvisa convocazione generale, quasi trascinato dall’orco, si trovò in mezzo a un flusso costante di figure che conosceva solo vagamente, alcune familiari, altre appena intraviste nei corridoi o nei cortili. C'era un'aria pesante di attesa, un'elettricità che sembrava pronta a esplodere.

Quando raggiunsero la grande sala, la vista gli tolse quasi il respiro. Era un luogo vasto, avvolto in un'atmosfera cerimoniale, con file ordinate di individui che si radunavano davanti a una piattaforma. Sul trono, al centro della scena, sedeva una figura femminile imponente, il cui abito nero fluiva come ombra liquida intorno a lei. La maschera che portava era una maschera totale, priva di espressione, ma ornata da un diadema coronato da corna elaborate. Un tratto inquietante, quasi diabolico.

Kethmer rimase immobile, i suoi occhi che vagavano tra i presenti. Riconobbe il cavaliere nero, che stava in piedi a fianco della regina, emanando un’aura di autorità assoluta. Il suo colpo secco di mani, che cozzarono contro i guanti dell'armatura, fece sprofondare la sala in un silenzio immediato. Era un suono che non poteva essere ignorato.

“Ascoltate,” disse il cavaliere, la sua voce fredda e metallica che riempiva ogni angolo della sala. “Abbiamo ricevuto notizie di grande importanza. L’imperatore del regno umano, sotto la cui ombra prospera anche questa città, è stato assassinato.”

Le parole rimbalzarono nella sala come colpi di tamburo. Un fremito attraversò la folla, ma nessuno osò parlare. Il cavaliere continuò, “L’assassina è la sua stessa figlia, Maria. Ieri, durante le celebrazioni, lo ha ucciso con le sue mani e si è autoproclamata imperatrice. Da oggi, sarà conosciuta come Maria la Sanguinaria.”

La sala esplose in mormorii sommessi. Kethmer osservò le facce intorno a lui—alcune scettiche, altre curiose, e alcune decisamente preoccupate. La regina, sul trono, non si mosse di un millimetro, il volto inespressivo della maschera che dominava la stanza con il suo silenzio.

“Silenzio!” Il cavaliere nero alzò una mano guantata, e la sala si zittì immediatamente. “Questo atto, come potete immaginare, avrà conseguenze enormi. Maria ha già iniziato a promulgare nuove leggi, e i suoi decreti stanno scuotendo le fondamenta del regno.”

Kethmer rimase impassibile, ma dentro di lui si agitava qualcosa. Il colpo di stato non era solo una notizia lontana. Sentiva che avrebbe cambiato anche la sua realtà.

“Maria,” continuò il cavaliere, “ha dichiarato che intende distruggere la corruzione nobiliare radicata dal regno di suo padre. Dice di voler restituire il potere al popolo e ai poveri, per liberarli dai vincoli che li hanno tenuti schiavi per generazioni.”

La folla borbottò di nuovo, ma questa volta con toni diversi. Alcuni sembravano scettici, altri chiaramente approvavano.

“Ma non è tutto,” disse il cavaliere, la sua voce che si fece più grave. “Maria ha annunciato la reintroduzione della leva militare per i giovani tra i diciotto e i ventitré anni. Ogni villaggio e città dovrà contribuire alla creazione di un esercito. Ma la sua misura più controversa è questa: un censimento magico.”

La parola “magico” fece irrigidire Kethmer. Le persone attorno a lui iniziarono a sussurrare più freneticamente.

“Un censimento magico,” ripeté il cavaliere. “Maria vuole raccogliere in filatteri i fumi di ogni individuo dotato di magia nella provincia. Dice che ciò servirà a individuare e controllare ogni mago. Nessuno sarà escluso, e chi tenterà di sottrarsi sarà trattato come un traditore.”

Kethmer serrò i denti. La magia, il fumo, erano una parte di lui, qualcosa che era appena iniziato a capire e usare. Essere privato di ciò, essere reso un numero in un registro, un oggetto controllato da un filatterio, gli sembrava una condanna.

Il cavaliere rimase in silenzio per un momento, lasciando che il peso della notizia si depositasse nella sala. Poi, con un tono che non ammetteva replica, concluse: “Prepariamoci. La mossa di Maria non è solo un colpo di stato. È una dichiarazione di guerra contro la libertà.”

Kethmer guardò la regina, il volto mascherato ancora immobile. Dietro quella maschera inespressiva, immaginava una mente che già tramava risposte e contromosse. Ma ciò che lo colpì di più fu la sensazione di essere intrappolato in un gioco di poteri molto più grande di lui, un gioco in cui lui era, ancora una volta, solo una pedina.

The tale has been stolen; if detected on Amazon, report the violation.

Il cavaliere nero batté nuovamente le mani, il suono rimbombando come un colpo di tamburo nella sala. Gli sguardi si alzarono verso di lui, gli animi tesi nell’attesa di altre rivelazioni. Dopo una breve pausa, riprese a parlare, la sua voce carica di gravità.

“La maggior parte delle province e delle cittadine si sono già sottomesse alla nuova imperatrice. Maria la Sanguinaria ha stretto il pugno sul regno più velocemente di quanto chiunque si aspettasse.” Fece una pausa, lasciando che le sue parole pesassero sull’assemblea. “Ma non si è fermata lì. Ha inviato un messaggio diretto alla nostra regina.”

Un fremito attraversò la folla. Kethmer trattenne il respiro, osservando la figura mascherata della regina, immobile come una statua, mentre il cavaliere continuava.

“Nel messaggio, Maria ha riconosciuto la nostra organizzazione. Ha affermato che, se i Traduttori del Silenzio accettassero di entrare a far parte del suo esercito come corpo militare d’élite, lei ci avrebbe graziati.”

Un’esplosione di mormorii riempì la sala, tra incredulità e rabbia sorda. Kethmer percepì un misto di sdegno e curiosità negli sguardi di chi lo circondava. La proposta della nuova imperatrice suonava tanto come un’offerta quanto come una minaccia.

Il cavaliere alzò una mano guantata, richiamando nuovamente il silenzio. “Ma come sapete,” proseguì, “i Traduttori del Silenzio non sono mai stati creati per servire un trono, ma per servire chiunque fosse disposto a pagare il giusto prezzo per una lama. La nostra regina ha inviato un rifiuto formale. Nessun traduttore si inginocchierà di fronte a un sovrano.”

Le sue parole portarono un’onda di approvazione nella sala, ma anche una palpabile tensione. Kethmer osservò i volti intorno a lui: alcuni soddisfatti, altri visibilmente preoccupati.

“Questo rifiuto,” continuò il cavaliere, “ha delle conseguenze. Tempi duri ci attendono. Maria non perdona. Non tollera opposizioni, e siamo già nella sua lista. Dobbiamo prepararci.”

“Il sindaco della città,” disse poi con una nota di disprezzo, “il nostro fantoccio, è fuggito. Ha abbandonato il suo incarico come il codardo che è. Senza di lui, il nostro controllo diretto sulla città è stato spezzato. In città, la gente ha iniziato a fare i bagagli, chiudere bottega e fuggire. I pavidi ci stanno lasciando.”

Kethmer serrò i denti. Non c’era dubbio che la situazione fosse critica. La città, un tempo sotto l’influenza silenziosa dei Traduttori, stava collassando. Ma il cavaliere non aveva ancora finito.

“Ma per ogni pavido che fugge,” disse con forza, “ci saranno coloro che resisteranno. Ci saranno uomini e donne pronti ad opporsi. Noi dobbiamo essere pronti a offrire loro una lama. Perché è questo che siamo. I Traduttori del Silenzio sono nati per servire chiunque possa permetterselo, non per piegarsi al volere di un trono.”

Gli sguardi si volsero verso la regina, che ancora non aveva proferito parola. La sua figura sembrava emanare una gravità intangibile, una forza che dominava la stanza senza bisogno di gesti o parole.

Kethmer, immerso nei suoi pensieri, non poté fare a meno di riflettere sulle implicazioni di tutto ciò. Maria la Sanguinaria, il censimento magico, la leva militare, e ora la città che si svuotava sotto i loro occhi. I Traduttori si stavano preparando per una guerra che, per quanto lo riguardava, sembrava inevitabile.

“Prepariamoci,” concluse il cavaliere. “Il caos è alle porte. Noi siamo coloro che lo domano. O che ne fanno buon uso.”

Kethmer chiuse gli occhi per un istante, il fischio nelle sue orecchie che sembrava sincronizzarsi con il battito del suo cuore. Tempi duri, sì. Ma per chi?

In quei giorni, Kethmer osservava dalle grate della sua finestra, gli occhi persi nel caos ordinato delle strade sottostanti. File di carri scivolavano tra i vicoli, carichi di sacchi gonfi e casse traballanti. Famiglie intere, ammassate in quegli spazi angusti, scivolavano via dalla città come sangue che cola da una ferita aperta. I loro volti erano scolpiti dal terrore, ma anche da una determinazione silenziosa: sopravvivere, a ogni costo.

Abbandonare tutto o restare e rischiare tutto. La dicotomia si aggrovigliava nella mente di Kethmer, stringendolo come una morsa. Ma per lui, la decisione era già stata presa. Non c’era fuga possibile, non c’era un mondo oltre quella finestra che potesse offrirgli rifugio. Lui era una pedina, e le pedine non avevano voce. Solo il campo di gioco e i movimenti imposti dalla mano che le guidava.

Tre giorni passarono come un sussurro, privi di senso, privi di pace.

Quella notte, il fischio si fece sentire, non come un sussurro distante o una nota persistente, ma come un urlo acuto e perforante che lo strappò dai suoi esercizi notturni. Era un dolore fisico, un crescendo che lo portò a stringersi la testa con le mani, cercando di zittire quel tormento. Ma qualcosa lo spinse ad alzarsi, a muoversi verso la finestra, come se un istinto più forte della sua volontà lo guidasse.

Fu allora che la vide. Una figura nel cielo, avvolta in un’armatura dorata che brillava al chiaro di luna come una stella caduta. I suoi capelli, lunghi e rossi come il fuoco, erano sospinti dal vento in un’aura fiammeggiante. Per un istante, il tempo sembrò fermarsi. Poi, una luce abbagliante squarciò la notte, seguita da un suono distorto e profondo che sembrava provenire da ogni direzione.

Kethmer urlò, ma il suono si perse nel caos. Il rumore esplosivo gli fece esplodere un timpano, un dolore acuto che si riversò attraverso il suo cranio. Cadde a terra, le mani che cercavano disperatamente di proteggere le orecchie. Tutto intorno tremava. Le mura della sua stanza sembravano piegarsi, mentre i mobili venivano scossi come foglie in un uragano.

Quando finalmente la luce svanì, Kethmer si sollevò con fatica, aprendo gli occhi ancora brucianti. La finestra mostrava uno spettacolo di pura devastazione. Tutto ciò che circondava la tana, per almeno cento metri, era stato raso al suolo. Case, strade, alberi: nulla era rimasto in piedi. Solo cenere e detriti illuminati dalla pallida luce della luna.

Il silenzio che seguì fu spezzato da urla. Provenivano dal corridoio, dalla tana stessa. Recuperando lentamente l’udito, ora sostituito da un ronzio costante, Kethmer riusciva a distinguere grida di paura e ordini concitati. Si alzò, il corpo tremante, e si diresse verso la porta.

Qualunque fosse stata la causa di quella devastazione, non era finita. E lui lo sapeva.

I pugni di Kethmer martellavano la porta con furia, ma il legno e il metallo non cedevano. Il fischio nella sua testa si intrecciava con i rumori del caos circostante, rendendo ogni suono confuso e distante. Poi sentì lo scatto della serratura, un rumore metallico preciso che spezzò la sua frenesia. La porta si aprì, rivelando El, il volto freddo ma determinato, illuminato solo dalla fioca luce del corridoio.

“Muoviti,” disse con voce tagliente, senza lasciare spazio a obiezioni.

Kethmer la seguì, il cuore che batteva come un tamburo nel petto. I corridoi erano semivuoti, spettrali, abitati solo da figure in preda al panico che correvano verso le scale. Qualcuno si aggrappava alle pareti come se il mondo stesso si fosse inclinato sotto i loro piedi. I due scesero rapidamente, passando davanti a volti confusi e sfigurati dalla paura.

La torre li intercettò qualche piano più in basso. Era una visione imponente, nonostante la ferita sul fianco che non aveva ancora guarito del tutto. “Andate nella sala grande!” urlò, la sua voce che rimbombava nei corridoi. “Tutti nella sala grande! Presto!”

Kethmer lanciò uno sguardo fuori dalle grandi finestre dei corridoi al piano terra. Il giardino, un tempo curato e rigoglioso, era stato completamente raso al suolo, trasformato in una distesa di cenere e macerie. Come buona parte della città. Eppure, l'edificio della tana era intatto. Non c’era un solo segno di distruzione sulle sue mura. Come poteva qualcosa di così devastante lasciare intoccata quella struttura? Si pose la domanda, ma non c’era tempo per cercare risposte. Continuò a correre.

Quando arrivarono alla sala grande, il rumore della folla colpì Kethmer come un’onda. C’era gente ovunque—volti familiari, figure incontrate di sfuggita, e perfetti sconosciuti—tutti ammassati in un’ansia collettiva. Ma tra loro, alcune figure spiccavano per la loro calma glaciale. Il re e la regina, immobili come statue, osservavano la scena dall’alto della piattaforma.

Gli alfieri erano al centro della sala, chini sul pavimento di pietra. Lo gnomo, l’umano che Kethmer ricordava vagamente dalla camera degli interrogatori, e altri arcanisti stavano tracciando un enorme cerchio magico con il gesso. I simboli ricamati erano intricati e alieni, pulsanti di una tensione arcana che sembrava sospesa nell'aria. “Restate all’interno del cerchio se volete sopravvivere!” gridò lo gnomo, con una voce tagliente che sovrastò il caos.

Kethmer seguì El e la torre nel cerchio, il suo sguardo che vagava tra i volti attorno a lui. Vicino a loro, notò il nano tatuato in volto che li fissava con un’espressione impenetrabile. Non c’era traccia del solito sarcasmo o rabbia nei suoi occhi, solo una tensione controllata.

I gruppi iniziarono a smaterializzarsi uno dopo l’altro, avvolti dal fumo che si alzava dal cerchio. Era un processo rapido, quasi brutale nella sua semplicità. Le persone si dissolverono in spirali di fumo, lasciando dietro di sé solo un debole odore metallico e una vaga impressione nel vuoto.

Quando fu il turno di Kethmer, la torre lo afferrò per il braccio, spingendolo avanti con una forza ferma ma non ostile. “Sta’ vicino,” gli disse. El era già lì, il volto impassibile mentre il fumo iniziava ad avvolgerli. Il nano li seguì, le sue braccia incrociate mentre fissava il pavimento.

Kethmer chiuse gli occhi, il fischio nella sua testa che aumentava con l’intensità del fumo. Poi tutto si dissolse, e il mondo intorno a lui divenne una spirale di cenere e silenzio.

Kethmer osservava il paesaggio surreale che si estendeva davanti ai suoi occhi. Pianure sabbiose si perdevano a vista d’occhio, illuminate da un sole innaturalmente luminoso e freddo. Il contrasto con il buio opprimente della notte precedente era tanto violento quanto straniante. Il freddo lo colpì subito, un gelo che pareva provenire direttamente dai raggi di quel sole alieno.

Intorno a lui, le pedine si raccoglievano, confuse e spaesate, il cerchio magico ormai svanito sotto i loro piedi. Borbottii di domande si mescolavano al sibilo del vento che accarezzava la sabbia. Kethmer rimase in silenzio, il fischio nella sua testa attenuato dall’inaspettata desolazione.

Non molto lontano, notò il re, il cavaliere nero, parlare con un gruppo di alfieri, cavalli e torri. Dietro di lui, la regina si stagliava contro l’orizzonte, un’ombra elegante e silenziosa. Allungò una mano verso quel sole alieno, un gesto che sembrava pieno di nostalgia, come se stesse parlando a qualcosa che solo lei poteva sentire. Kethmer rabbrividì, percependo un’aura intangibile che emanava dalla figura mascherata.

Le figure si divisero. I cavalli presero direzioni diverse, allontanandosi dal gruppo senza una parola. Gli alfieri iniziarono a lanciare incantesimi di evocazione, facendo apparire coperte e mantelli che distribuirono alle pedine. Solo lo gnomo rimase immobile, davanti a uno spazio vuoto. Le sue mani si alzarono, danzando in gesti complessi, mentre accumulava una quantità di fumo che Kethmer non aveva mai visto prima. Era una visione quasi ipnotica, un rituale che sembrava scolpire l’aria stessa.

Le torri rimanenti si avvicinarono al gruppo di pedine, mentre il nano odiato dalla torre di Kethmer risultava assente. La torre orco parlò con voce grave, il suo tono impregnato di rispetto per la gravità della situazione.

“Maria la Sanguinaria ha attaccato la città in prima persona,” annunciò. “Con tutto il suo esercito, probabilmente teletrasportandolo al di fuori delle mura con l’aiuto di arcanisti, senza preavviso. Ha colpito come un’assassina, senza preoccuparsi dei civili. Il suo obiettivo era chiaro: fare un esempio di noi.”

Un mormorio percorse la folla, ma l’orco continuò, il suo sguardo cupo fisso sulle pedine. “Gli alfieri dicono che l’incantesimo usato per distruggere il quartiere è al di fuori della nostra comprensione. Era sicuramente un asso nella manica dell’imperatrice, qualcosa di tenuto segreto fino a questo momento.” Fece una pausa, il suo tono che si addolcì appena. “L’unica ragione per cui siamo vivi è la regina. La nostra sovrana aveva segretamente intessuto un incantesimo sulla villa, proteggendola dalla catastrofe.”

Kethmer osservò la regina di nuovo, il suo gesto verso il sole che ora sembrava un saluto solenne a un nemico sconosciuto.

L’orco riprese: “Ora riceverete cibo e indumenti caldi per sopravvivere a questo ambiente ostile. Una sistemazione temporanea è già in fase di preparazione. Nessuno di quelli che sono rimasti fuori dalla tana è sopravvissuto. Siamo tutto ciò che resta.”

Uno dei presenti, pallido e tremante, trovò il coraggio di fare una domanda: “Dove siamo finiti?”

L’orco girò la testa, il suo volto segnato dalla serietà. “Siamo nel settimo piano di Dolor,” disse. “Non molto distante dalla Cittadella di Vetro Blu.”

La risposta lasciò un gelo nelle ossa, più profondo del sole innaturale. Dolor, il luogo che nessuno avrebbe mai voluto vedere. Ora era la loro nuova realtà.

Dietro l’orco, lo gnomo alfiere completò il suo rituale. Con un ultimo gesto, abbassò le braccia, facendo spalmare la massa di fumo sul terreno. I simboli tracciati sul suolo presero vita, e da quel disegno emerse una struttura enorme. Era una villa, simile a quella che avevano lasciato, che si materializzava dal nulla.

Lo gnomo, esausto, si inginocchiò, il sudore che gli rigava il volto, ma un sorriso stanco illuminava i suoi lineamenti. La regina si avvicinò, poggiandogli una mano sulla spalla. Sebbene nessuno potesse udire le sue parole, qualcosa nel suo gesto comunicava un calore che nessun altro in quella landa desolata avrebbe potuto offrire.

Lo gnomo lacrimò, stringendo il pugno sul ginocchio e sorridendo debolmente. Per un istante, Kethmer si chiese se fosse quello il vero potere che muoveva i Traduttori del Silenzio: la capacità di costruire speranza anche nelle sabbie più gelide di Dolor.

Le pedine si lasciarono guidare dagli alfieri all'interno della nuova struttura, una costruzione fredda e perfetta, nata dalla magia e dall'esigenza. All’interno, grandi stanzoni erano stati preparati per ospitare i gruppi, riempiti con letti a castello e poche coperte. Le pareti spoglie trasudavano una strana freddezza, non solo fisica, ma anche emotiva.

La maggior parte si rannicchiò subito nei letti, cercando rifugio nella falsa promessa del riposo. Coperti fino alla testa, tentavano di sfuggire alla realtà estraniante in cui si erano ritrovati. Ma non tutti potevano permettersi quel lusso.

Kethmer, seduto su uno dei letti inferiori, osservava la scena in silenzio, poi si rivolse alla ragazza vicino a lui. "Cosa pensi di tutto questo?" chiese, la voce appena sopra un sussurro.

Lei sollevò appena lo sguardo, l’espressione enigmatica come sempre. "Penso che la sopravvivenza qui sarà interessante," rispose, con un tono che lasciava intuire un sottile divertimento. "Le pedine si stanno già spezzando."

Poco distante, un’ombra si mosse. L’uomo basso con i tatuaggi sul volto si avvicinò, non mascherando il fatto di origliare. "Interessante vedere un elfo e una di... quelli, chiacchierare come vecchi amici," disse con sarcasmo, le labbra piegate in un sorriso beffardo. "Non ti dà fastidio sapere che la sua gente ha sterminato la vostra?"

La ragazza alzò un sopracciglio, poi si voltò verso di lui con un’espressione gelida. "È curioso sentire una lezione morale da un Arg Harug," disse lentamente, accentuando il termine come una lama che affonda. "Non è forse il tuo popolo a esiliare i suoi criminali marcandoli per sempre? Dovresti guardarti allo specchio prima di parlare."

L’uomo tatuato sgranò gli occhi per un istante, poi piegò la testa di lato. "Sai un bel po’ sui nani, eh? Strano, per qualcuno della tua specie." Il tono era tagliente, ma c’era una traccia di curiosità.

Lei sorrise appena, un sorriso che non arrivò agli occhi. "Ne so sicuramente più di quanto tu ne sappia sui Mesvet," ribatté velenosa, il tono tagliente come una lama.

Kethmer, sentendo la tensione crescere, si alzò cercando di placare gli animi. "Basta," disse, cercando di mascherare il tremito nella voce. "Non è il momento per... discussioni inutili."

La ragazza lo guardò di lato, il sorriso scomparso, mentre l’uomo tatuato sbuffò, alzando le mani in segno di resa apparente. "Come vuoi," disse. "Ma ricorda: non tutti qui sono disposti a dimenticare il passato."

Si allontanò, lasciandoli nel silenzio, ma l’atmosfera nella stanza rimase tesa, il fischio nella testa di Kethmer un urlo incessante. Era solo l’inizio di una convivenza che prometteva più lame che tregue.

Kethmer osservava il nano seduto poco distante, il suo sguardo severo che sembrava bucare la penombra della stanza. C’era qualcosa di profondamente inquietante in quell’uomo tatuato, un’aura pesante e oscura che pareva irradiarsi da ogni movimento.

"Come fai ad andare d'accordo con quella?" chiese il nano, rompendo il silenzio con una voce graffiante. "Non ti ricordi cosa ti ha fatto nell’arena? Ti ha quasi ucciso."

Kethmer lo fissò per un istante, soppesando le parole. Poi alzò appena le spalle, la sua espressione neutra. "È una storia lunga," disse con un tono che lasciava intendere poco. "Ma sì, lo so che è pericolosa. È potente, però, è interessante."

Si sporse in avanti, il suo sguardo più penetrante. "E poi siamo tutti sulla stessa barca, no? Non è che possiamo permetterci troppi rancori."

Il nano piegò leggermente la testa, il suo sguardo che si stringeva in una fessura. "Sei più ingenuo di quanto pensassi," disse con un tono che sfiorava il disprezzo. "Ma dimmi, sei proprio certo che lei la pensi così?"

Kethmer lo fissò, il fischio nella testa che pulsava come una ferita. "Tu come fai a sapere dell’arena?" chiese, cambiando argomento e fissandolo con curiosità. "E di cosa è successo là dentro?"

Un sorriso storto si dipinse sul volto del nano, le rughe dei suoi tatuaggi che sembravano piegarsi in un intricato disegno. "Perché ero lì," ammise, ma il tono aveva una punta di ambiguità. "Uno dei pochi che è uscito vivo da quella prova."

Kethmer strinse gli occhi, cercando di ricordare. Ma i volti dell’arena erano un caos confuso di sangue e ombre, e non c’era traccia di lui nella memoria. "Eri lì?" domandò, perplesso.

"Certo che c’ero," disse il nano con un ghigno. "Ma tu non eri esattamente in condizioni di notare tutti quelli che cercavano di ucciderti, vero?" Il suo tono era beffardo, ma c’era qualcosa di sottile e non detto sotto quelle parole.

Kethmer rimase in silenzio per un istante, la mente che lavorava freneticamente. Poi cambiò di nuovo argomento, la sua voce più diretta. "E chi ti stava addestrando prima che succedesse tutto questo?"

Il nano si fermò, il sorriso che si allargava come una crepa su una parete. "Il cavallo," rispose infine. "La Mesvet."

Kethmer sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Ora tutto aveva senso: l’aura oscura, l’atteggiamento spavaldo, il modo in cui sembrava attrarre istintivamente diffidenza e paura. Un allievo della Mesvet.

"Ecco perché emani quell’aria... inquietante," disse Kethmer, con un tono quasi accusatorio.

Il nano rise piano, un suono graffiante che sembrava provenire dal profondo della terra. "Oh, ragazzo, non hai idea. Lei non addestra, lei distrugge e ricostruisce." Si alzò, lanciandogli un’ultima occhiata prima di andarsene. "Forse un giorno lo scoprirai anche tu."

E con quelle parole, lasciò Kethmer immerso nei suoi pensieri, il fischio che continuava a pulsare nella sua testa come un avvertimento.