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Acufene [Italiano]
Capitolo II: L’arena del sangue

Capitolo II: L’arena del sangue

Kethmer si risvegliò bruscamente, il corpo ancora dolorante per le ferite non del tutto guarite. L’aria era pesante, carica di sudore, sangue e muffa, e ogni respiro sembrava un insulto ai suoi polmoni. La cella in cui si trovava era stretta, appena sufficiente per sdraiarsi, con pareti di pietra umida e una grata di ferro che si affacciava su un corridoio scarsamente illuminato.

Un mormorio inquietante rimbalzava tra i muri. Le voci erano basse, alcune nervose, altre fredde e rassegnate. Kethmer si alzò a fatica, ignorando il fianco che protestava, e si trascinò verso la grata. Cercò di guardare fuori, ma l’oscurità gli restituiva solo ombre e movimenti indistinti.

Fu allora che la voce esplose, forte e profonda, rimbombando come il ruggito di una bestia.

“Benvenuti, disperati e dannati, all’arena!”

La figura che parlava era avvolta in un’armatura nera integrale, un guscio lucido che non lasciava intravedere nulla di umano. Era in piedi al centro dell’arena, un cerchio vasto delimitato da alte pareti di pietra, osservato da decine di grate simili a quella della cella di Kethmer. Sopra le mura, un concilio di figure incappucciate sedeva in silenzio, i loro volti nascosti nell’ombra, come giudici di un macabro spettacolo.

“Il rito di iniziazione è semplice,” continuò il cavaliere. “Tutti contro tutti. Sopravvivete o morite. E non osate deluderci: il massacro finirà solo quando il concilio sarà soddisfatto.”

La frase si abbatté su Kethmer come un martello. Il respiro gli si spezzò, e le mani gli tremarono mentre si aggrappava alle sbarre. Tutti contro tutti. Non c’era via d’uscita, nessuna alleanza, nessuna clemenza. Solo sangue e morte.

Nella cella accanto alla sua, El, una Mesvet dai capelli bianchi e gli occhi brillanti come argento, si appoggiò contro il muro di pietra. Il viso era sereno, quasi placido, e un sorriso sottile le increspò le labbra. A differenza di molti, lei era lì volontariamente. Per lei, quell’arena era una benedizione, una possibilità di dimostrare il suo valore al concilio e di ascendere. Aveva passato anni ad addestrarsi, a forgiare il proprio corpo e la propria mente come un’arma. La paura non l’aveva mai toccata.

“Che spettacolo,” sussurrò, con una voce che era più un pensiero che un commento. “Vedremo se gli altri valgono qualcosa.”

Tre celle più in là, Torvax, un nano tatuato su ogni centimetro del volto e del cranio rasato, sedeva a terra, con le mani serrate in pugni. I suoi occhi erano pieni di odio, ma non per quelli che avrebbe incontrato nell’arena. Era lì per un errore, un’offesa che non poteva cancellare: un furto d’artefatti proibiti che aveva attirato l’ira dei Traduttori del Silenzio. Non si era arreso facilmente, e il suo corpo portava i segni della cattura. Per lui, quella non era un’opportunità, ma una condanna. Eppure, sotto la rabbia, una scintilla di resistenza ardeva ancora.

“Finirà con me o con loro,” mormorò, la voce ruvida come pietra graffiata.

Nella sua cella, Kethmer lottava con il panico. Non era un combattente, non era mai stato un assassino. Era un sopravvissuto, abituato a muoversi nell’ombra, a fuggire, a rubare. Ogni battito del suo cuore gli ricordava quanto fosse impreparato per quello che lo aspettava.

Le grida di alcuni prigionieri risuonavano lungo il corridoio, qualcuno pregava, altri si abbandonavano a insulti e minacce. Kethmer si accasciò contro il muro, il fiato corto, i pensieri confusi. Le mani gli tremavano mentre si accarezzava il fianco, ricordando l’ultimo scontro. Non sopravviverò.

Un clangore improvviso risuonò, un rumore metallico che scosse tutti dal loro stato. Le celle cominciarono ad aprirsi, una dopo l’altra, le grate che si sollevavano lentamente. Il cavaliere, che con un balzo aveva raggiunto gli spalti di pietra al di sopra dell’arena, sollevò un braccio rivestito di metallo e parlò ancora, con voce fredda e implacabile.

“Entrate, disperati. Inizia il vostro giudizio.”

Kethmer si alzò con difficoltà, il panico che si mescolava alla rassegnazione. Era il momento di combattere o di morire.

Il clangore delle grate che si sollevavano rimbombava nell’arena, un richiamo alla carneficina imminente. Ma non tutti risposero subito. Molti restarono nelle loro celle, paralizzati dalla paura, i volti pallidi e gli occhi fissi sul vuoto. Il corridoio si riempì di un silenzio teso, interrotto solo dai primi passi cauti di chi trovava il coraggio – o la follia – di uscire.

Torvax, il nano, fu tra i primi. Balzò fuori dalla sua cella con la rapidità di un animale braccato. Non cercava gloria né prove di forza. La sua era pura sopravvivenza, guidata da un odio freddo e razionale. Scorse la porta accanto alla sua, ancora chiusa, e un ghigno amaro gli attraversò il volto. Non avrebbe lasciato che il prossimo colpo venisse da dietro di lui.

Spalancò la grata e trovò un giovane umano rannicchiato in un angolo, le mani giunte come in preghiera. Non ci fu esitazione. Torvax si lanciò su di lui, le mani callose che si chiusero attorno al suo collo. L’umano si contorse, i piedi che scalciavano inutilmente sul pavimento, ma la presa del nano era inesorabile. Un pugno, poi un altro, e un altro ancora. Quando si fermò, il corpo dell’umano era ridotto a una massa informe, il viso un mosaico di carne e sangue.

Intanto, nella cella accanto, Kethmer si aggrappava alla porta aperta, il cuore che martellava nel petto. Era uscito per metà, la mente bloccata tra la fuga e la paura. Non riusciva a muoversi, le gambe piantate al suolo come se fossero radici.

“Tro-va-to” canticchiò una voce vicina. Ma non ebbe il tempo di voltarsi.

Una scarica di energia necrotica lo colpì, bruciandogli il viso e il braccio. L’odore di carne che si scioglieva invase l’aria mentre Kethmer cadeva a terra, urlando. Un liquido scuro colava dalle sue ferite, il volto e il braccio ormai ridotti a una poltiglia informe. I suoi occhi si spensero in un istante.

Lì vicino, El, la Mesvet, abbassò le mani ancora avvolte da un alone oscuro. Non mostrava emozione, nessuna traccia di compiacimento o di rimorso. I suoi occhi si spostarono su un uomo pronto a calciarla che usciva da una cella poco distante. Fece un passo avanti, con calma, e con un sussurro quasi melodico scagliò un’altra scarica necrotica. L’uomo cadde al suolo senza un suono, il petto squarciato, la carne corrotta fino alle ossa.

“Due,” disse El, con voce piatta. I suoi occhi vagarono per l’arena, registrando ogni movimento. Un secondo uomo, poi un terzo, si lanciarono contro di lei. Uno dopo l’altro, giovani, disperati, alcuni armati di pietre raccolte, altri a mani nude. Lei li accolse con la stessa freddezza, le sue magie che consumavano vita dopo vita.

“Tre. Quattro. Cinque,” continuò a contare, ogni numero un suono vuoto.

Torvax la osservava da lontano, muovendosi di porta in porta come un predatore che sceglie le sue prede. Non osava affrontarla. Sapeva che la Mesvet era qualcosa di più di una semplice partecipante. Invece, si concentrò su quelli ancora nascosti, quei disperati che non avevano avuto il coraggio di uscire. Ogni grata che spalancava era un altro colpo, un’altra morte. Mani che soffocavano, pugni che spezzavano ossa. Torvax non mostrava pietà, ma nei suoi occhi non c’era soddisfazione. Solo furia e necessità.

Nell’arena, il sangue si accumulava. Le grida di dolore e il suono delle lotte riempivano l’aria. El continuava a contare, spostandosi con precisione chirurgica da una vittima all’altra, la sua calma innaturale che infastidiva perfino il concilio che osservava dall’alto.

Torvax, invece, si muoveva come un’ombra rabbiosa, il corpo coperto di sangue non suo, un’arma di carne e ossa che non cercava vittoria, ma una via d’uscita da quell’inferno.

El avanzava lentamente, il viso apatico, mentre i suoi passi lasciavano sul pavimento una scia di sangue e polvere. Ogni vittima aggiunta alla sua lista sembrava essere solo un numero, un’annotazione su un registro mentale che teneva con una precisione quasi maniacale.

“Sette. Otto. Nove,” sussurrò, alzando lo sguardo verso il prossimo bersaglio. Un uomo alto, avvolto in un bagliore dorato, si muoveva con calma attraverso l’arena, i suoi passi sicuri e deliberati. I suoi occhi scintillavano di determinazione, e un’aura luminosa lo circondava come uno scudo, respingendo la sporcizia e il sangue che impregnava l’aria.

El sollevò una mano, l’indice puntato verso di lui, mentre un fumo nero e denso cominciava a scorrere come un serpente, avvolgendo la sua pelle pallida. L’energia necrotica si accumulò rapidamente, pronta a scagliarsi contro il nuovo arrivato.

Con un movimento fluido, l’uomo alzò un braccio e assorbì il colpo come se fosse una brezza. La necrosi si disperse contro il suo bagliore, lasciando El momentaneamente immobile.

“Interessante,” sussurrò, il tono piatto, mentre abbassava la mano. Ma l’uomo non le lasciò il tempo di preparare un altro incantesimo.

Con una rapidità impressionante, si avvicinò e la afferrò per il polso. Il movimento era preciso, quasi chirurgico, e con una torsione spezzò il suo avambraccio in un crepitio di ossa spezzate. El emise un sussurro, non un grido, mentre il dolore le attraversava il corpo. La sua espressione non cambiò, se non per un leggero sbuffo, come se fosse stata solo un’inconvenienza.

Poi, senza esitazione, l’uomo le assestò una ginocchiata ben piazzata al fianco, facendola barcollare all’indietro. La Mesvet si piegò leggermente, ma i suoi occhi non persero quel bagliore glaciale. Il fumo cominciò a raccogliersi attorno alla sua bocca.

Con un’espressione che tradiva solo una lieve irritazione, El soffiò un incantesimo necrotico direttamente verso l’uomo. Era raro vedere la magia uscire dalla bocca, un’arte pericolosa e imprevedibile, ma nelle sue mani era una seconda natura. Una nube oscura e letale si scagliò contro di lui.

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L’uomo si mosse con agilità, cercando di schivare. Il fumo lo lambì, scurendo parte della sua aura luminosa e lasciandogli uno sfregio lungo la spalla e il torace. Si mosse indietro, con il respiro leggermente più pesante, ma mantenne la posizione. L’aura attorno a lui si intensificò al suo recitare una formula gestuale, una probabile armatura magica che si ricostruiva mentre lui assumeva una posa marziale.

L’aria tra loro sembrava congelata, il pavimento imbevuto di sangue e tensione. Era un duello, due predatori che si studiavano.

Torvax, nascosto nell’ombra a pochi passi di distanza, osservava la scena con attenzione. Il nano si accovacciò leggermente, le mani pronte a scattare se necessario. Ma non si avvicinò. Non ancora. La Mesvet e l’uomo sembravano due forze della natura, e Torvax non aveva intenzione di trovarsi tra loro.

“Che si uccidano a vicenda,” pensò con un ghigno feroce, i suoi occhi che balenavano come fiamme nell’oscurità.

L’aria nell’arena vibrava di tensione mentre El si muoveva rapidamente indietro, le labbra che si piegavano in un sussurro appena percettibile. Il fumo scuro cominciò a serpeggiare attorno a lei, raccogliendosi in filamenti sottili che si contorcevano come serpenti vivi. Puntò un dito verso uno dei corpi senza vita sul pavimento, e il fumo si riversò su di esso come un’onda nera.

Il cadavere si contorse violentemente, la carne che si disgregava in un putridume scivoloso, rivelando ossa che scintillavano alla luce tremolante dell’arena. Lo scheletro si eresse, le orbite vuote che sembravano fissare l’uomo avvolto nel bagliore. Con un crepitio sinistro, il nuovo servitore di El si mise tra lei e l’avversario.

L’uomo non si fermò. Avanzò con calma, la sua aura dorata che pulsava mentre un’altra barriera magica si formava attorno a lui. La luce respingeva l’oscurità come olio sull’acqua, un contrasto violento e viscerale. Il primo colpo arrivò con una precisione disarmante: l’uomo frantumò lo scheletro con un pugno, le ossa che esplosero in frammenti come vetro.

El non mostrò alcuna emozione. Il suo volto era una maschera di gelo, le sue movenze fredde e calcolate. Si limitò a fare un passo indietro, le dita che si muovevano rapide come danzatrici. Un altro cadavere si alzò dal suolo, avvolto dallo stesso fumo necrotico, e prese il posto del precedente.

L’uomo lo affrontò senza esitazione. Avanzava con movimenti fluidi, ogni attacco una combinazione di forza bruta e controllo magico. Ogni scheletro evocato da El cadeva in pezzi sotto i suoi colpi, ma lei non rallentava. Continuava a indietreggiare, creando nuovi servitori, come se fosse una macchina, inarrestabile, inumana.

Torvax, nascosto tra le ombre, osservava la scena con un misto di fascino e cinismo. Si accovacciò, con il mento appoggiato al palmo, e borbottò tra sé.

“Quella avrà energia per quanto ancora? Due… tre scheletri al massimo,” mormorò, strofinandosi il mento sporco di sangue. “E lui? Quante barriere può tirare fuori prima che si svuoti?”

Scosse la testa, il ghigno feroce che non lo abbandonava mai. “Punto cinque monete su di lui. No, aspetta… facciamo sei su di lei. Ha il ritmo, non ha ancora sbagliato un colpo.”

L’uomo distrusse un altro scheletro con una scarica di energia, la sua aura che crepitava attorno a lui come un fuoco sacro. El, impassibile, evocava ancora. La sua bocca si piegò in un altro sussurro, e un terzo cadavere si alzò. Il ciclo sembrava infinito: evocazione, distruzione, evocazione. Nessuno dei due lasciava spazio all’altro, un equilibrio precario fatto di luce e ombra.

Torvax inclinò la testa, i suoi occhi che balenavano nell’oscurità. “Forse nessuno vincerà,” rifletté a mezza voce. “Magari si ammazzano a vicenda prima che uno dei due crolli.”

Si mise comodo, una mano che tamburellava nervosamente sul ginocchio, mentre la battaglia continuava davanti a lui, inesorabile come una tempesta che si abbatte su un terreno già devastato.

L’arena sembrava sospesa nel tempo. I passi dell’uomo brillavano con un’aura di fatica, la sua respirazione più pesante, mentre i suoi movimenti marziali si facevano appena meno precisi. El, nel frattempo, continuava la sua danza di morte, evocando scheletri con sussurri sommessi e movimenti fluidi, mentre indietreggiava come una predatrice calcolatrice.

Ma qualcosa stava cambiando.

L’uomo, per quanto stanco, si accorse che il terreno attorno a lui era disseminato di ossa. Troppi per essere una coincidenza. I resti di coloro che avevano fallito, mescolati a quelli che El aveva già sacrificato come servitori. Le orbite vuote degli scheletri sembravano fissarlo da ogni direzione, e per la prima volta, un lieve dubbio oscurò la luce della sua aura.

El si fermò. Per un momento, tutto fu silenzio. La sua figura sembrava fragile, quasi spezzata, ma il suo volto era privo di emozione, come sempre. Poi, con un movimento rapido e finale, portò entrambe le mani al petto. Un fumo nero si raccolse, una nube pulsante che si espanse attorno a lei come un cuore corrotto.

In un istante, il fumo si riversò sui cadaveri circostanti.

L’uomo fece per avanzare, ma era già troppo tardi. Con un boato assordante, ogni scheletro esplose contemporaneamente. Detriti, schegge di ossa, e frammenti di carne e pietra si lanciarono in tutte le direzioni, un’onda distruttiva che consumò tutto ciò che incontrava. La sua armatura magica si incrinò sotto l’impatto, il bagliore che la avvolgeva vacillò e si spense.

Un pezzo d’osso, lanciato come un proiettile, trapassò l’occhio destro dell’uomo, penetrando fino al cranio. La sua figura, un tempo luminosa e imponente, si afflosciò come una marionetta senza fili. Cadeva con un suono sordo, il suo corpo devastato dalla furia della trappola di El.

Torvax osservava tutto dalla sua ombra, incredulo. La sua mascella si serrò, le dita tamburellarono nervosamente sul ginocchio.

La Mesvet era ancora lì. La sua figura, sempre rigida e controllata, ora vacillava. Cadde in ginocchio, una grossa scheggia di osso conficcata nella sua coscia, il danno, evidente.

Il suo movimento era ostacolato, e il suo respiro appena più pesante tradiva la fatica accumulata.

Torvax si sporse dall’ombra, un ghigno feroce che si allargava sul suo viso tatuato. “È finita,” sussurrò tra sé. I suoi occhi brillavano di eccitazione, il suo corpo si tese come una molla pronta a scattare. Ora o mai più.

“Bel gioco, bambina,” mormorò tra i denti, le mani che scivolarono verso un osso appuntito raccolto dopo l’esplosione. “Ma la vittoria è mia.”

Torvax avanzava lentamente nell’ombra, un predatore sicuro della preda ferita davanti a sé. El era in ginocchio, la scheggia d’osso che le piegava la gamba in un angolo innaturale, i suoi occhi glaciali ancora fissi sull’arena come se calcolassero ogni possibilità. Ma prima che il nano potesse fare il passo finale, qualcosa attirò la sua attenzione.

Un’ombra barcollante si stagliò contro la luce tremolante delle torce. Un elfo dai capelli lunghi e il viso scavato avanzava, i movimenti lenti e disarticolati, come un burattino i cui fili erano stati tagliati e riannodati maldestramente. Le orbite vuote sembravano fissare El con un intento muto, con un’espressione di panico mentre procedeva.

El si girò di scatto, il viso sempre privo di emozioni. Sollevò un dito, ma questa volta il fumo non uscì. Con uno spasmo quasi impercettibile, una scarica scarlatta si riversò dalla sua mano, un dardo di sangue condensato che fischiò nell’aria e centrò l’elfo in pieno volto.

Il corpo dell’elfo crollò all’indietro con un suono sordo, il viso esploso in una massa informe. Ma mentre il suo cadavere sembrava destinato a restare immobile, un mugolio basso e inumano si levò da quelle labbra appena formate. Torvax si fermò, la mano che stringeva l’osso si irrigidì. L’elfo cominciò a rialzarsi.

Il volto devastato si rimodellò lentamente, la carne che ribolliva e strisciava come vermi sotto la pelle. Gli occhi, due pozzi di vuoto liquido, si rigenerarono con un tremolio macabro, seguiti da un cranio che si ricomponeva a scatti, ogni ossicino che scattava al suo posto con un rumore simile a denti che scricchiolano.

El rimase immobile per un istante, ma poi, con la stessa calma disumana, scagliò altri due dardi. Questa volta, il sangue che fuoriuscì dalla sua mano sembrava meno fluido, quasi denso come melma. I proiettili perforarono il petto dell’elfo, aprendogli voragini che facevano intravedere le costole spezzate. L’elfo crollò di nuovo, come un sacco di carne.

Ma ancora una volta si mosse, strisciando. Le ferite si richiudevano, la pelle che si stirava sopra le fratture e le ossa che si saldavano con suoni umidi e squillanti. Ogni spasmo di rigenerazione era come un atto innaturale, una lotta tra la vita e la morte combattuta direttamente nella carne.

El indietreggiò di un passo, il volto ancora freddo, ma per la prima volta un fremito impercettibile le attraversò le labbra. "Che cosa sei?" mormorò con voce appena udibile.

L’elfo si trascinò in avanti, mentre allungava la mano verso di lei. Con un sospiro che pareva spezzato, la bocca appena riformata emise un suono fragile. “Aiuto…” sussurrò.

Torvax scattò fuori dall’ombra come un animale folle. Le sue mani sporche afferravano l’osso con forza, e con un grido di rabbia e paura lo piantò nel collo dell’elfo. Un suono umido risuonò nell’aria, e il corpo dell’elfo si piegò di lato. Il mugolio si interruppe bruscamente, ma i suoi occhi vuoti non persero mai Torvax di vista, nemmeno mentre il sangue scarlatto colava dal buco appena creato.

Torvax si voltò verso El, il fiato corto e gli occhi spalancati, un ghigno feroce che tradiva la sua paura. “Ora basta. Finisce qui,” ruggì, sollevando un pugno verso la Mesvet, deciso a reclamare la vittoria con le sue mani.

Ma alle sue spalle, il corpo dell’elfo tremò di nuovo. L’osso conficcato nel collo cominciò a spostarsi, le fibre muscolari che si attorcigliavano attorno ad esso per spingerlo fuori. Il buco si richiudeva lentamente, e un nuovo mugolio, più profondo e più umano, si levò nell’aria.

L’aria nell’arena era ferma, un silenzio tombale che sembrava inghiottire ogni cosa. Torvax pronto a colpire El, i suoi occhi iniettati di sangue. Il ghigno feroce sul suo volto era ormai distorto dalla fatica e dalla paura, ma la determinazione di finire quella lotta bruciava ancora nei suoi occhi.

Dietro di lui, però, qualcosa si mosse. Con un salto silenzioso e letale, il cavaliere in armatura nera integrale atterrò nell’arena dagli spalti dove si era accomodato dopo l’inizio. L’impatto del suo arrivo fece tremare il pavimento, ma il rumore metallico fu quasi assorbito dalla tensione che dominava l’atmosfera. Torvax si bloccò di colpo, il fiato mozzato, mentre una mano guantata lo afferrava con una facilità che tradiva una forza innaturale.

“È finita,” dichiarò il cavaliere con una voce profonda e distaccata, il suono rimbombante all’interno dell’elmo. Poi, con un gesto quasi disinteressato, spinse Torvax via come se fosse una piuma. Il nano volò per qualche metro e si schiantò contro una parete.

Il cavaliere si avvicinò con calma, ogni passo un’eco pesante.

“Rientra nella tua cella,” ordinò, puntando un dito verso una delle grate. Non ci fu minaccia nella sua voce, solo una certezza implacabile.

Torvax esitò per un istante, la rabbia che baluginava nei suoi occhi. Ma poi, abbassò lo sguardo, strofinandosi il mento sporco, e obbedì senza protestare. Entrò nella cella, scivolando nel buio come un animale ferito.

Il cavaliere si voltò verso El, che era ancora inginocchiata, il volto impassibile, ma il suo corpo cedeva finalmente alla fatica. Senza alcun riguardo, il cavaliere la sollevò per il colletto della tunica. La Mesvet non emise un suono mentre veniva gettata nella cella come un sacco di patate, il suo corpo che atterrava con un tonfo sordo sul pavimento di pietra.

Poi fu il turno di Kethmer. L’elfo si trascinava ancora, i mugolii disperati che uscivano dalla sua bocca rigenerata. Si aggrappò alla gamba del cavaliere, le sue mani tremanti che stringevano il metallo freddo con una forza patetica. “Aiutami…” implorò, la voce spezzata, i suoi occhi pieni di una paura infantile. “Per favore… non lasciarmi qui…”

Il cavaliere lo guardò per un lungo istante, come se valutasse la sua richiesta. Poi, con un movimento deciso, lo afferrò per la testa e lo sollevò come fosse stato fatto di carta. Kethmer si contorse, cercando di aggrapparsi, ma il cavaliere lo lanciò dentro la cella senza alcuna delicatezza. Il corpo dell’elfo colpì il pavimento con un suono umido e sordo.

“Basta,” disse il cavaliere, la voce che risuonava come una campana funerea. Poi chiuse la grata con un gesto secco e definitivo.

Mentre l’arena tornava al silenzio, il cavaliere si voltò verso le ombre, dove il concilio incappucciato osservava. Non disse nulla. Non ce n’era bisogno. La sentenza era stata pronunciata nel sangue.