L’alfiere era seduto alla sua scrivania, immerso nel suo libro, ma i suoi occhi scuri si sollevarono per un istante, osservando con attenzione i quattro davanti a lui. C’era qualcosa di inevitabile nell’energia tra Kethmer ed El, un fuoco che bruciava sotto la superficie, alimentato da rivalità e tensione. Il goblin e lo gnomo più anziano sembravano presenze passive in quella dinamica, ma l’alfiere sapeva che tutto sarebbe cambiato presto.
Con calma chiuse il tomo, il rumore sordo che ruppe il silenzio nella stanza. “Ho un contratto per voi,” annunciò, il tono misurato ma con un accenno di gravità. “Preparatevi. Domani mattina partirete.”
Non aggiunse altro, lasciandoli con un senso di confusione e anticipazione.
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Il mattino seguente, i quattro si ritrovarono nel giardino, l’aria fresca e il sole appena sorto che creavano un’atmosfera irreale. Kethmer, El, il goblin e lo gnomo anziano si scambiarono sguardi incerti. Nessuno sapeva esattamente cosa aspettarsi, e l’assenza dell’alfiere non faceva che aumentare il loro disagio.
Dopo qualche minuto, il piccolo gnomo comparve, camminando con la sua solita tranquillità. Aveva un’aria enigmatica, come se sapesse già tutto ciò che sarebbe successo. Si fermò di fronte a loro e li guardò uno ad uno, soffermandosi per qualche istante in più su Kethmer ed El.
“Il contratto è questo,” iniziò, il tono neutro. “Un uomo è stato assassinato. La moglie ci ha pagato per trovare e uccidere il suo assassino. Scoprite chi è e terminate il contratto. Questo è quanto.”
I quattro rimasero immobili, processando le informazioni. Non c’era nessun indizio, nessun punto di partenza chiaro. Era una missione aperta, e l’incertezza li colse di sorpresa.
“La donna vi aspetta alla taverna in piazza mercato, ha vesti nere da vedova,” continuò l’alfiere, con un lieve sorriso che tradiva il piacere di metterli alla prova. “Parlate con lei. Fate le vostre domande. E poi agite. Io vi seguirò… in silenzio.”
Prima che qualcuno potesse fare domande, l’alfiere alzò una mano e mormorò un incantesimo. Una lieve ondata di fumo lo avvolse, dissolvendosi rapidamente e lasciandolo invisibile. Non c’era alcun suono, nessun segno della sua presenza. Erano soli.
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“Bene,” sbottò il goblin, rompendo il silenzio. “E adesso?”
El, con la sua solita espressione glaciale, si voltò verso Kethmer. “Tu sei bravo a fare domande inutili, no? Perché non cominci?”
Kethmer le lanciò uno sguardo carico di tensione, ma decise di non raccogliere la provocazione. “Andiamo alla taverna,” disse semplicemente. “Partiamo da lì.”
I quattro si misero in cammino, ognuno immerso nei propri pensieri. La piazza mercato era già viva di attività quando arrivarono, i venditori che allestivano bancarelle e gli acquirenti che contrattavano animatamente. La taverna era un edificio robusto, con un’insegna di legno che oscillava leggermente al vento.
Entrarono, l’atmosfera calda e rumorosa che li accolse. In un angolo, seduta a un tavolo, c’era una donna vestita di scuro. La sua postura rigida e il velo sul volto tradivano una tensione evidente.
“Cominciamo,” mormorò Kethmer, stringendo i pugni mentre si avvicinava alla donna. Sapeva che questo contratto sarebbe stato diverso. Non si trattava solo di uccidere, ma di pensare. E questo lo inquietava più di qualsiasi battaglia.
La taverna era rumorosa, piena di clienti che parlavano e bevevano, ma quando il gruppo entrò, l’atmosfera sembrò cambiare. La taverniera, una donna robusta e di mezza età, si avvicinò con un’espressione curiosa, ma appena vide Kethmer fare il gesto del silenzio—il dito indice portato dritto davanti alla bocca—si fermò di colpo. Il gesto era inequivocabile.
Il simbolo dei Traduttori del Silenzio.
La taverniera abbassò immediatamente lo sguardo, il suo atteggiamento diventando sommesso e reverenziale. “Cosa desiderate?” chiese con voce tremante, quasi sussurrando.
“Formaggio e noci,” disse Kethmer, con un tono deciso ma calmo. Si voltò verso i suoi compagni, che lo osservavano con espressioni confuse. “Voi?”
“Nulla,” rispose il goblin con un cenno della mano. Lo gnomo più anziano annuì, concordando, ed El rimase in silenzio, guardando altrove come se l’intera situazione fosse sotto la sua dignità.
Kethmer sospirò e scosse la testa, il ricordo della Torre che gli ronzava in mente. Non si completa un contratto a stomaco vuoto.
“Allora formaggio e noci per tutti,” disse alla taverniera, che annuì velocemente prima di allontanarsi per preparare l’ordine.
I suoi compagni lo fissarono, visibilmente confusi. Il goblin fu il primo a parlare. “Che diavolo stai facendo? Non siamo qui per mangiare.”
“Non hai mai lavorato fuori, vero?” rispose Kethmer, il tono neutro ma carico di un sottile disprezzo. “Goditi questi piccoli momenti di libertà.” Si sedette con calma a un tavolo vicino, aspettando il cibo. Il resto del gruppo, seppur titubante, lo seguì, prendendo posto con riluttanza. C’era qualcosa in lui, in quel momento, che trasmetteva esperienza, qualcosa che non avevano mai visto prima.
Quando la taverniera tornò con i piatti, Kethmer distribuì il cibo senza dire nulla, cominciando a mangiare con calma. Il goblin, dopo qualche esitazione, fece lo stesso, seguito dallo gnomo. Solo El lo guardò con occhi stretti, il volto impassibile, prima di prendere un pezzo di formaggio e addentarlo senza una parola.
“Ricordatevi questa scena,” disse Kethmer dopo qualche minuto, mentre si puliva le mani. “Quando sarete fuori, non sempre avrete una tana a proteggervi. Non sempre avrete tempo di gustarvi la libertà. Quindi, quando ne avete l’occasione, fatelo. Non voglio sentire lamentele quando sarete a corto di energie.”
Il goblin lo guardò con un misto di rispetto e fastidio, ma non rispose. Lo gnomo annuì leggermente, e persino El rimase in silenzio, forse per la prima volta senza una provocazione pronta.
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Quando si sentirono pronti, si alzarono e si avvicinarono al tavolo della donna che li attendeva. Era vestita di scuro, con un velo che copriva parzialmente il suo volto, lasciando intravedere occhi gonfi e una pelle pallida. Quando i quattro si sedettero di fronte a lei, li guardò con un’espressione confusa e disorientata.
“Siete voi?” chiese incerta, la voce rotta da un misto di ansia e dubbio.
“Siamo noi,” rispose Kethmer con calma, poggiando le mani sul tavolo. “Raccontaci tutto.”
La donna parlava con una voce tremante, le mani che stringevano nervosamente un fazzoletto mentre raccontava i dettagli del delitto. Il marito, un mercante di grano rispettato, era stato accoltellato in un vicolo di periferia qualche notte prima. Il crimine sembrava l’opera di un comune ladro, il suo corpo era stato recuperato e preparato per i riti funebri secondo la tradizione.
A un certo punto, si fermò e fece una breve preghiera rivolta alla Vergine, invocando la sua protezione. El, seduta accanto a Kethmer, irrigidì la schiena e i suoi occhi si fecero gelidi. Un’ombra di disprezzo e un accenno di collera attraversarono il suo volto, rendendo evidente che quella menzione religiosa l’aveva profondamente irritata.
Kethmer notò la sua reazione, ma non intervenne. La donna doveva finire il suo racconto, e ogni ulteriore distrazione avrebbe solo complicato le cose.
Lo gnomo più anziano, seduto di fronte alla vedova, posò il suo diario sul tavolo e cominciò a fare domande con un tono neutro e professionale. “Come mai suo marito si trovava in quel quartiere quella notte? Può indicarci il vicolo in questione? E, soprattutto, sarebbe possibile vedere ed esaminare le spoglie per avere più informazioni sul delitto?”
La donna rispose con un misto di affermazione e vaghezza. “Sì, vi mostrerò come raggiungere il vicolo,” disse, la voce rotta da una lieve esitazione. “E certo, potrete vedere il corpo se ritenete necessario. Per quanto riguarda la sua presenza lì…” fece una pausa, abbassando lo sguardo. “Probabilmente era andato a bere in una taverna nei dintorni. A volte lo faceva, per rilassarsi.”
Lo gnomo annuì, annotando meticolosamente ogni risposta nel suo diario. Quando furono soddisfatti delle informazioni ricevute, i quattro si alzarono per congedarsi. La donna li seguì con lo sguardo, ancora inquieta, mentre lasciavano la taverna.
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All’esterno, il gruppo si fermò per un momento a riflettere sulle risposte ricevute. Kethmer, con un’espressione pensierosa, ruppe il silenzio. “Ha mentito,” disse, il tono deciso.
Il goblin lo guardò perplesso. “Sul motivo per cui suo marito era lì?”
Kethmer annuì. “Sì. Ha detto che probabilmente era andato a bere in una taverna, ma conosco quel quartiere. Non ci sono taverne. Solo bordelli.” Il suo tono era calmo, ma i suoi occhi erano pieni di determinazione. “Quindi o non sapeva veramente dove fosse, o ci sta nascondendo qualcosa di importante.”
El sorrise debolmente, il solito ghigno che faceva capolino ogni volta che le bugie altrui venivano smascherate. “Interessante. Una pista, almeno. Se non altro, abbiamo già qualcosa su cui lavorare.”
Lo gnomo scrisse rapidamente un’annotazione, mentre il goblin si grattava la testa, visibilmente incerto su quale direzione prendere.
“Dove cominciamo?” chiese il goblin, guardando Kethmer e gli altri.
Kethmer fece un respiro profondo, lo sguardo perso nei pensieri. “Al vicolo. Prima di tutto, vediamo cosa possiamo scoprire lì.” Sapeva che ogni bugia, se esaminata a fondo, comincia a sgretolarsi. E quel contratto sembrava avere più ombre che luci.
Il quartiere emanava una miseria palpabile. Le strade erano strette e malmesse, e l’aria era satura di fumi densi e odorosi che si alzavano dalle finestre delle fumerie. Gli edifici si allineavano come denti marci, ognuno più decrepito dell’altro, e l’atmosfera era carica di un silenzio sospetto, interrotto solo dal bisbiglio occasionale di figure nascoste nell’ombra.
Kethmer avanzava con il gruppo, ma sentiva il fischio nelle orecchie crescere in intensità. Era da tanto che non consumava il Ghymo, la sostanza oleosa che veniva spalmata nelle pipe e che placava mente e corpo in un torpore chimico. Per un momento, si fermò, guardando una delle finestre dalle quali provenivano quei fumi familiari. La tentazione era forte, ma si costrinse ad andare avanti, stringendo i pugni per reprimere l’impulso.
Quando raggiunsero finalmente il vicolo, si trovarono di fronte a uno spazio stretto e soffocante, delimitato da muri coperti di sporco e muschio. Nulla sembrava fuori posto, ma il vicolo emanava un’aura di disagio, come se qualcosa di terribile fosse accaduto lì e l’eco dell’evento non se ne fosse mai andata. La gente che passava nei dintorni evitava di guardare verso quel punto, tenendo lo sguardo basso e affrettandosi.
Il gruppo si mise subito a cercare indizi. Kethmer esaminò le pareti e il terreno, mentre El si concentrava sulle casse e sui detriti che ingombravano il vicolo. Il goblin frugava tra i cumuli di spazzatura, borbottando qualcosa sul fatto che quella fosse una perdita di tempo.
Lo gnomo, però, mostrò una pazienza quasi soprannaturale. Si accovacciò vicino a una cassa di legno e analizzò con attenzione ogni angolo. Dopo un momento, si alzò con un piccolo frammento di tessuto bianco tra le dita. “Cotone,” disse con un tono soddisfatto, mostrandolo al resto del gruppo. “Un pezzo di veste, probabilmente. Lo conserviamo.”
Estrasse una piccola ampolla dal suo borsello, inserì il frammento al suo interno, e sigillò con cura. “Non sappiamo se sia collegato al delitto, ma potrebbe essere un indizio,” aggiunse, riponendo l’ampolla con un gesto preciso.
Kethmer osservò lo gnomo in silenzio, impressionato dalla sua meticolosità. Era un approccio molto diverso dal suo istinto brutale, ma non poteva negare la sua efficacia. Forse stava iniziando a comprendere l’utilità di un metodo più ragionato.
Dopo un’altra ispezione approfondita, che non rivelò nulla di nuovo, il goblin si voltò verso il gruppo. “Andiamo al bordello?” propose con un sorriso malizioso, rompendo la tensione.
El sbuffò, incrociando le braccia. “Non vedo alternative, a meno che non vogliamo passare ore a scavare tra la spazzatura.”
Kethmer annuì, lo sguardo serio. “Andiamo. Forse qualcuno lì ha visto qualcosa. E se no, almeno possiamo avere un’idea di cosa faceva davvero il mercante qui.”
Il gruppo si mosse, lasciandosi il vicolo alle spalle, mentre le ombre sembravano seguirli come occhi invisibili che osservavano ogni loro passo.
Il bordello si stagliava di fronte a loro, un edificio decisamente più curato rispetto al resto del quartiere, con una facciata che cercava di mascherare il degrado circostante con tende rosse logore e una porta di legno intagliato, ormai consunta dal tempo. Un’aria di decadenza permeava il luogo, mista a un odore dolciastro di profumi economici e disperazione.
Appena si avvicinarono, una donna dai capelli tinti e dalla veste scollata uscì sulla soglia, lanciando uno sguardo distratto al gruppo. Quando vide Kethmer, il suo volto si illuminò di sorpresa. “Tu!” esclamò, avvicinandosi rapidamente. “Non ci credo… dopo tutto questo tempo!”
Kethmer la fissò, confuso. Non riconosceva il suo volto, ma il fischio nelle orecchie aumentò d’intensità, quasi a suggerire che un frammento della sua memoria fosse sepolto lì, da qualche parte.
La donna lo studiò per un momento, inclinando la testa. “Non ricordo il tuo nome… ma tu venivi qui, vero? Frequentavi spesso questo posto. Mi sembra strano che non ti ricordi di me.” Il suo tono aveva una sfumatura di rimprovero, ma anche una vaga tristezza.
Kethmer cercò di rispondere, ma nessuna parola gli uscì dalla bocca. Era incapace di dire qualcosa, la mente un vuoto frammentato.
Poi la donna si voltò verso il goblin, che stava al suo fianco, e sorrise. “E tu! Anche tu eri con lui, vero? Come ti chiami… aspetta… sei quel goblin, il piccolo bastardo che rideva sempre, giusto?” Fece una pausa, cercando nella memoria. “Ah, sì! Lo chiamavamo Scurz!”
Il goblin sbatté le palpebre, confuso. “Non sono io,” disse, scuotendo la testa. “Non so di cosa stai parlando.”
La donna lo fissò per un momento, perplessa. “Ah, va bene, va bene…” mormorò, anche se la confusione rimaneva evidente nei suoi occhi. Poi si voltò di nuovo verso Kethmer, con un tono più sommesso. “Che fine hai fatto? Pensavo fossi morto…”
Kethmer distolse lo sguardo. “Siamo stati in viaggio,” disse infine, cercando di mettere fine alla conversazione. Il tono era vago, distante, ma sufficiente a farle abbassare le spalle in un gesto di rassegnazione.
El osservava la scena in silenzio, le braccia incrociate e uno sguardo acuto che scrutava ogni reazione di Kethmer. Sembrava studiarlo, come se cercasse di collegare i pezzi del puzzle.
La donna, dopo un momento di esitazione, fece un cenno con la testa verso l’interno. “Venite, vi faccio entrare.”
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Il bordello, una volta varcata la soglia, era un luogo avvolto nella penombra. L’aria era satura di fumo e profumi stucchevoli, il pavimento appiccicoso sotto i piedi. Divanetti sgualciti erano sparsi lungo le pareti, occupati da figure disperate che amoreggiavano senza convinzione o vagavano come ombre, perduti nei loro pensieri.
Al centro della stanza, una figura imponente, la matrona, osservava il gruppo mentre si avvicinavano. I suoi occhi si soffermarono su Kethmer, e il suo volto si fece pallido. Sembrava riconoscerlo, ma non ricordava il suo nome.
“Tu…” mormorò, senza finire la frase. Poi si scosse, mascherando l’incertezza con un’espressione più dura. “Cosa volete qui?”
Kethmer aprì la bocca per rispondere, ma fu il goblin a parlare per primo, il tono diretto. “Siamo qui per fare domande. Su un uomo. Un mercante di grano che è stato ucciso di recente.”
La matrona strinse le labbra, il suo sguardo che si fece più cauto. “Forse dovete parlare con qualcuno dei lavoratori,” disse infine, indicando con un gesto vago le stanze sul retro.
Kethmer annuì, ma non poteva scrollarsi di dosso la sensazione che c’era qualcosa di sepolto in quel luogo, un pezzo del suo passato che non riusciva ancora ad afferrare.
Kethmer si muoveva con passi lenti e misurati, come un predatore in una giungla densa di odori e pericoli. L’aria stagnante del bordello, satura di sudore rappreso, profumi dolciastri e desideri repressi, sembrava cercare di soffocarlo, ma per la prima volta sentiva di avere il controllo. I corpi seminudi che si muovevano attorno a lui, le risate soffocate e gli sguardi provocanti non riuscivano a spezzare la sua concentrazione.
Il fischio era lì, incessante, ma sotto controllo. Ogni respiro profondo, ogni passo deciso, era una vittoria contro quel tormento che lo perseguitava da mesi.
El, che camminava accanto a lui con la solita noncuranza, non perse l’occasione di osservare la sua lotta interna. Il suo sguardo tradiva un sottile godimento, un piacere malvagio nel vederlo resistere, soffrire. Era un gioco per lei, un esperimento da cui trarre divertimento e dati.
La matrona li guidò verso il retro del bordello, un’area meno affollata ma non meno soffocante. In una stanza illuminata da candele che proiettavano ombre tremolanti sulle pareti, tre donne stavano sedute davanti a specchi opachi, impegnate a truccarsi pesantemente con movimenti lenti e abitudinari. Il loro abbigliamento era minimo, i segni della loro vita incisi su ogni centimetro di pelle esposta.
“Voi tre,” iniziò la matrona, il tono autoritario che le fece alzare lo sguardo contemporaneamente. “Vi ricordate del mercante di grano? Quello che veniva qui?”
Le donne si scambiarono uno sguardo rapido, quasi complice, prima di annuire lentamente. “Sì, lo conoscevamo,” rispose una, la più anziana delle tre, con una voce roca che tradiva anni di fumo e notti insonni. “Veniva spesso.”
Lo gnomo anziano avanzò di un passo, prendendo la parola con il suo tono calmo ma penetrante. Era la voce della ragione, un suono che sembrava tagliare l’aria come una lama affilata.
“Parlateci di lui,” disse, fissandole con occhi attenti. “Con chi parlava? Con chi si incontrava? Aveva dei nemici?”
La donna più giovane, una ragazza con capelli rossi arruffati e occhi che brillavano di paura, esitò prima di rispondere. “Non parlava molto. Veniva, beveva qualcosa, si chiudeva in una stanza con una di noi… e poi se ne andava.”
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“E quella notte?” incalzò lo gnomo, tirando fuori il suo diario per annotare le risposte. “Chi era con lui? Cosa è successo prima che uscisse?”
Un’altra delle donne, una bruna dai lineamenti duri e segnati, che stava coprendo un livido sul collo con del trucco, si sporse leggermente in avanti. “Quella notte era con me,” disse, la voce bassa. “Era agitato, più del solito. Mi disse che qualcuno lo stava seguendo. Gli consigliai di restare, ma non volle ascoltarmi.”
“E poi?” chiese lo gnomo, senza perdere tempo.
“E poi se ne andò,” rispose lei con un sospiro, incrociando le braccia. “Non lo vidi più.”
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Kethmer ascoltava in silenzio, ogni parola che usciva dalle loro bocche che si insinuava nella sua mente come frammenti di un enigma incompleto. Il fischio era ancora lì, ma si stava attenuando, sostituito da un’energia diversa: la concentrazione, l’adrenalina.
El, invece, fissava le donne con un’espressione di distacco. “Quindi sapevate che era in pericolo,” disse con il suo solito tono gelido. “E lo avete lasciato andare?”
“Non potevamo fare nulla,” rispose la bruna, stringendo le labbra. “Non siamo qui per salvare nessuno.”
“Interessante,” mormorò El, i suoi occhi che si spostarono verso Kethmer per un istante, quasi come se volesse vedere la sua reazione.
Lo gnomo chiuse il suo diario con un gesto deciso. “Per ora è tutto. Ma se vi ricordate altro, non esitate a dircelo.” Fece un cenno alla matrona, che le congedò con un gesto brusco.
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“Cosa ne pensate?” chiese il goblin, rompendo il silenzio mentre uscivano dalla stanza.
“Che c’è molto più di quello che hanno detto,” rispose Kethmer, il tono grave. Sapeva che quelle donne nascondevano qualcosa, e aveva tutta l’intenzione di scoprirlo.
La città sembrava ancora più caotica mentre i quattro si dirigevano verso il centro. Lo gnomo, camminando con la testa china, parlava a bassa voce, quasi tra sé e sé, esponendo le sue osservazioni con una chiarezza metodica. “Nessuna donna nel bordello indossava una veste bianca, a parte la matrona,” iniziò, ma prima che qualcuno potesse intervenire, alzò una mano per fermarli.
“Prima che chiediate, ho già controllato la sua veste,” disse con una nota di orgoglio. “La qualità tessile è di gran lunga superiore rispetto al frammento trovato nel vicolo. Non appartiene a lei.”
Kethmer si fermò un istante, osservando lo gnomo con una nuova considerazione. Era chiaro che il piccolo arcanista stava conducendo un’indagine seria e approfondita, molto diversa dalla sua inclinazione all’azione impulsiva.
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Quando raggiunsero la Chiesa, un’imponente costruzione che si ergeva come un monolite nel cuore della città, Kethmer notò El rallentare il passo. Si voltò verso di lei giusto in tempo per vederla indietreggiare di un passo e sputare sul pavimento.
Non disse nulla, ma lo sguardo di El era carico di disgusto, e per un momento sembrò che avrebbe abbandonato la missione. Poi, con un respiro profondo, riprese a camminare, seguendo il gruppo. Kethmer poteva solo immaginare cosa stesse passando nella mente della Mesvet, ma decise di non indagare.
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All’interno, la Chiesa era un luogo di silenzio reverenziale, con alte vetrate che proiettavano fasci di luce colorata sulle pietre fredde del pavimento. Un chierico giovane, che si aggirava tra le navate con un libro in mano, fu il primo a notarli. Quando gli parlarono della loro richiesta, li indirizzò verso un chierico più anziano, che li accolse poco dopo con un sorriso magnanimo.
“Cosa posso fare per voi, figli miei, nel nome della Vergine?” chiese l’anziano sacerdote, allargando le braccia in un gesto di accoglienza. La sua voce era profonda e autorevole, ma c’era un sottotono di pomposità che non sfuggì a Kethmer.
“Abbiamo il consenso della moglie del mercante di grano,” disse lo gnomo con calma, “per vedere il cadavere e capire meglio cosa gli è successo.”
L’espressione del sacerdote cambiò, tradendo una leggera sorpresa, ma si riprese rapidamente. Con un movimento lento, allungò una mano magra e grinzosa verso di loro.
“Le ale sacre di questo tempio divino sono riservate a chi dimostra vera devozione,” dichiarò con fare pomposo. “Una donazione sarebbe opportuna, per il mantenimento di questo luogo consacrato.”
El, al suo fianco, strinse il pugno, e Kethmer notò immediatamente il sottile fumo che iniziava a raggrumarsi intorno al suo indice. Non c’erano dubbi: stava per lanciare un incantesimo, e probabilmente non sarebbe stato piacevole per il sacerdote.
Kethmer agì d’istinto, afferrandole la mano prima che potesse fare qualcosa. Lo sguardo che El gli lanciò era gelido, ma non si oppose.
Poi, senza dire una parola, Kethmer si voltò verso il sacerdote e alzò il dito in un gesto che ormai conosceva bene: il gesto del silenzio. L’anziano chierico s’irrigidì, il suo volto deformandosi in un’espressione di disgusto e irritazione. Ma il simbolo era inequivocabile. I Traduttori del Silenzio avevano la loro influenza anche in luoghi come quello.
“Seguitemi,” disse infine, con un tono brusco e visibilmente contrariato. Si girò, muovendosi a passo lento verso una porta laterale. I quattro lo seguirono, il rumore dei loro passi che riecheggiava nell’immensità del luogo.
Kethmer lanciò un’occhiata a El, che ancora lo fissava con una miscela di rabbia e curiosità. Qualunque fosse il loro legame, si stava evolvendo in qualcosa di più complesso.
La stanza era fredda, con l’odore pungente della morte che permeava ogni angolo. I quattro passarono accanto a diversi tavoli, ciascuno occupato da corpi pallidi, immobili, disposti con una cura che sembrava al contempo rispettosa e distante. Il chierico anziano li guidava con lentezza, il suo disprezzo per quella richiesta evidente nei suoi movimenti rigidi e nello sguardo severo che lanciava ai visitatori.
Alla fine si fermarono davanti a un corpo coperto da un lenzuolo bianco. “Ecco il vostro mercante,” disse il sacerdote con tono brusco, indicando il cadavere. Poi si ritirò di qualche passo, incrociando le braccia e osservandoli con un’espressione di malcelata ostilità.
Lo gnomo si avvicinò senza esitazione, tirando fuori i suoi strumenti e iniziando ad esaminare il corpo. Sollevò il lenzuolo, rivelando un uomo corpulento, con la pelle cerulea e il viso rigido in un’espressione innaturale. Iniziò a esaminare attentamente ogni segno sul corpo, ignorando il modo in cui il sacerdote lo fissava, come se la sua stessa presenza fosse un insulto al luogo.
“Coltellate sulla schiena,” annunciò lo gnomo, il tono piatto. “Almeno sei. Ma c’è di più…”
Continuò a esaminare il cadavere, il suo sguardo acuto che non perdeva nessun dettaglio. “Segni di colluttazione sul viso. Graffi. Morsi sulle mani. Qualcuno ha combattuto per la propria vita.” Si fermò, le dita affusolate che si muovevano con cura sopra le unghie dell’uomo.
Dopo un attimo di silenzio, estrasse un minuscolo frammento di tessuto bianco incastrato su un’unghia spezzata. “Cotone,” annunciò, sollevandolo per mostrarlo agli altri. “Lo stesso materiale che abbiamo trovato nel vicolo. Siamo sulla pista giusta.” Inserì il frammento in un’altra ampolla, poi continuò la sua ricerca smaniosa.
Il sacerdote, che fino a quel momento aveva osservato in silenzio, sbottò con un tono irritato. “Questo è oltraggioso. Non potete trattare il corpo di un fedele in questo modo! È un sacrilegio!”
“Sacrilegio è lasciare un contratto incompiuto,” ribatté El, il tono freddo come il ghiaccio. Il sacerdote tacque, ma il suo sguardo si fece ancora più velenoso.
Quando lo gnomo concluse la sua analisi, si voltò verso gli altri con un’espressione pensierosa. “C’è qualcosa che manca,” disse. “Un pezzo del puzzle che non riesco ancora a identificare.”
El si fece avanti, il volto impassibile. Estrasse qualcosa dalla tasca, un piccolo oggetto avvolto in un panno scuro. Quando lo aprì, rivelò una lingua secca e contorta, visibilmente vecchia e conservata con cura.
“Vorrei provare una cosa,” annunciò con calma. L’atmosfera nella stanza cambiò immediatamente.
“Blasfemia!” urlò il sacerdote, avanzando di un passo con una mano alzata. “Questo è un luogo sacro! Non permetterò—”
El lo ignorò completamente. Posò la lingua accanto alla bocca del cadavere e iniziò a mormorare un incantesimo. Un fumo denso e scuro si sprigionò dal suo dito, strisciando come un serpente fino a penetrare nella bocca del morto.
Con uno scatto improvviso, la mascella del cadavere si aprì, il corpo convulso mentre il fumo sembrava animarlo. Il sacerdote gridò di nuovo, ma questa volta non fece un passo avanti, paralizzato dal terrore.
Il cadavere si immobilizzò, la testa che si piegò leggermente di lato. I muscoli del viso si contrassero, assumendo un’espressione di puro terrore. Poi si fermò, congelato in quella posa innaturale.
El si avvicinò al corpo, il suo tono freddo e inquisitorio. “Prima domanda,” disse, quasi con un tocco di sarcasmo. “Chi ti ha ucciso?”
Il cadavere aprì lentamente la bocca, i movimenti aritmici e scomposti. Una voce debole e spezzata emerse, un sussurro che sembrava provenire dall’oltretomba.
“Non… lo… so…” mormorò il corpo, prima che la mascella si richiudesse con un suono secco.
Un silenzio gelido calò nella stanza. Persino El sembrava sorpresa dalla risposta.
El osservò il cadavere con freddezza, il suo dito ancora avvolto da un sottile fumo scuro, mentre la stanza si riempiva di un silenzio opprimente. Si piegò leggermente in avanti, mantenendo il tono fermo e inquisitorio.
“Seconda domanda,” annunciò, la voce tagliente come una lama. “Chi c'era nel vicolo la sera in cui sei morto?”
Il cadavere si mosse in modo innaturale, la bocca che si apriva e chiudeva aritmicamente, come un meccanismo guasto. La voce che uscì era un sussurro agghiacciante. “Una ragazza… e qualcun altro… dietro di me.”
Le parole aleggiarono nella stanza come uno spettro, lasciando i presenti immersi nei propri pensieri. Il chierico, incapace di sopportare oltre, avanzò bruscamente, gridando: “Basta con questa blasfemia! Questo è un sacrilegio contro la Vergine e contro l’ordine divino!”
Prima che potesse intervenire ulteriormente, Kethmer si voltò verso di lui con uno sguardo glaciale e, senza esitazione, gli sferrò uno schiaffo così potente che il vecchio sacerdote volò indietro, crollando a terra privo di sensi. Nessuno nel gruppo si mosse per soccorrerlo, troppo concentrati sull’interrogatorio.
El non reagì, ma il suo sguardo tradiva un leggero divertimento. Si voltò di nuovo verso il cadavere, che ora era immobile, il fumo ancora presente intorno alla sua bocca. “Terza domanda,” continuò, con il tono di chi conduce un rituale. “Chi era la ragazza?”
Il corpo tremò leggermente, e poi un nuovo sussurro emerse, spezzato ma pieno di desiderio represso. “Non… lo… so… ma… la volevo…”
La risposta fece sussultare il goblin, che incrociò lo sguardo di Kethmer con un’espressione di inquietudine. C’era qualcosa di sbagliato, profondamente sbagliato, in quel desiderio espresso dal cadavere.
El rimase impassibile, ma si prese un momento per considerare. Poi si voltò verso lo gnomo, sapendo che poteva fidarsi del suo intuito. “Quarta domanda,” disse, scandendo le parole. “Com’era vestita la ragazza?”
Il cadavere mosse la testa leggermente di lato, e la risposta arrivò, lenta e gutturale. “Una veste… bianca…”
A quel punto, El si raddrizzò, fissando il gruppo con uno sguardo carico di significato. “Ho solo un’ultima domanda da porgli,” disse, il tono glaciale che nascondeva una certa tensione.
Tutti trattennero il fiato, aspettando cosa avrebbe chiesto. Era il momento decisivo, quello che avrebbe potuto svelare il cuore di quell’enigma oscuro.
La stanza era avvolta in un silenzio teso, rotto solo dalle parole dello gnomo e del goblin, che riorganizzavano gli eventi della notte fatale con un rigore metodico. I loro toni, seppur distinti, si intrecciavano in un flusso narrativo che cercava di dare ordine al caos.
“Ecco come potrebbe essere andata,” iniziò lo gnomo, il suo diario aperto davanti a lui mentre enumerava i punti con un dito ossuto. “L’uomo va al bordello, vede una prostituta, probabilmente uno dei volti che conosceva. Beve, si agita. Esce in preda all’ansia, convinto che qualcuno lo stia seguendo.”
“Poi,” continuò il goblin, gesticolando animatamente, “ubriaco e paranoico, attraversa il vicolo e lì vede la ragazza. La vuole. L’attacca. Lottano. Ci sono segni di graffi e morsi. Ma ecco che arriva qualcun altro, e lo accoltella furiosamente alla schiena. La giovane scappa.”
Le parole del goblin rimasero sospese nell’aria per un momento. Era una ricostruzione plausibile, ma qualcosa non quadrava.
“C’è un’incongruenza,” disse lo gnomo, fermandosi a riflettere, il suo sguardo che si perdeva tra le pagine del diario. “Un uomo spaventato, terrorizzato dall’idea di essere seguito, non si fermerebbe per assalire una giovane in un vicolo. Non è coerente con il suo stato mentale.”
“Già,” aggiunse il goblin, annuendo lentamente. “È strano. Perché avrebbe fatto qualcosa di così rischioso se credeva che qualcuno lo stesse seguendo?”
La stanza si riempì di una tensione palpabile, mentre il gruppo rifletteva su quella contraddizione.
“Quindi,” continuò lo gnomo, con una piega pensierosa nel tono, “forse la prostituta ha mentito. Non su tutto, ma su qualcosa di importante.”
El alzò un sopracciglio, lo sguardo fisso sullo gnomo. “E cosa stava cercando di proteggere?” chiese, il tono glaciale.
“Potrebbe essere qualcosa che sa sulla ragazza in bianco,” suggerì il goblin, grattandosi la testa. “O su chi l’ha accoltellato. Ma di sicuro sa più di quanto ci abbia detto.”
Kethmer rimase in silenzio, i pensieri che vorticavano nella sua mente. La prostituta aveva mentito, ma per quale motivo? Per proteggere se stessa, o qualcun altro?
El, ancora ferma accanto al cadavere, fissò il gruppo con la solita espressione apatica. “L’ultima domanda,” annunciò, il tono gelido che tradiva solo una lieve curiosità. “La ragazza vestita di bianco era al bordello?”
Il fumo scuro si avvolse attorno al dito di El, come un serpente pronto a colpire, e penetrò nella bocca del cadavere. La stanza sembrò trattenere il respiro mentre il corpo, per l’ultima volta, si mosse con scatti innaturali. La bocca si aprì, e un sussurro flebile e aritmico si diffuse nell’aria.
“Sì…”
Il gruppo rimase in silenzio per un lungo momento, ciascuno perso nei propri pensieri. Era la conferma che cercavano, ma il significato di quella parola sollevava più domande che risposte.
Kethmer si girò verso il goblin e lo gnomo, entrambi visibilmente tesi. Lo gnomo, con il suo diario aperto, annotava febbrilmente l’informazione, mentre il goblin grattava nervosamente il pavimento con una delle sue unghie.
“El,” disse Kethmer infine, il tono basso e contenuto, “che ne pensi?”
El ritirò il dito, lasciando che il fumo svanisse nell’aria, e si raddrizzò, lo sguardo freddo come sempre. “Penso che abbiamo perso abbastanza tempo con i morti,” rispose, fissando il cadavere immobile. “Ora dobbiamo occuparci dei vivi.”
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Il gruppo lasciò la stanza funebre, lasciandosi alle spalle il corpo e il sacerdote svenuto sul pavimento. La tensione tra di loro era palpabile mentre camminavano attraverso le fredde navate della chiesa. Kethmer sentiva il fischio crescere di nuovo, ma si costrinse a mantenere il controllo. La conferma che la ragazza vestita di bianco fosse al bordello era come un pugnale nella sua mente, un enigma che sembrava sempre più intricato.
“Dobbiamo tornare al bordello,” disse lo gnomo, rompendo il silenzio. “E questa volta, nessuno se la caverà con risposte vaghe.”
“Giusto,” aggiunse il goblin, annuendo. “Quella ragazza è la chiave di tutto, e la matrona o una delle sue donne lo sanno.”
El non disse nulla, ma nei suoi occhi si poteva leggere un’ombra di soddisfazione. Qualunque fosse la verità, sapeva che sarebbe stata più interessante di quanto avrebbero mai potuto immaginare.
Il gruppo camminava attraverso le strade oscurate della città, il silenzio pesante tra di loro, come se il mondo stesso trattenesse il fiato in attesa di un epilogo. Lo gnomo, solitamente taciturno e misurato, ora camminava più velocemente, il passo che aumentava senza una parola. Kethmer scambiò uno sguardo con El, ma nessuno osò interrompere il suo silenzio.
Finalmente, arrivarono al bordello. Lo gnomo, con un movimento rapido, superò la matrona senza nemmeno degnarla di uno sguardo, dirigendosi verso la bruna che aveva mentito prima, quella che aveva parlato della paranoia dell’uomo. La donna stava con un cliente ubriaco quando vide lo gnomo avvicinarsi con determinazione.
Con un gesto netto, lo gnomo si fermò davanti a lei, fissandola negli occhi. “Quella sera hai visto l’uomo trovato morto seguire la ragazza con la veste bianca fuori da qui,” iniziò, la sua voce calma e autoritaria. “Eri preoccupata perché la conoscevi, ma soprattutto sapevi che lui era un bastardo ubriaco e violento. Tu e le altre usavate trucco pesante per coprire i lividi. Lo hai seguito, armata. Quando hai visto cosa stava succedendo nel vicolo, non sei riuscita a fermarti. E l’hai accoltellato, dico bene?”
La donna, che fino a quel momento sembrava tranquilla, fece un'espressione di stupore. Poi, lentamente, il volto si trasformò in una maschera di rassegnazione. “Era mia sorella minore,” disse, abbassando lo sguardo. “Non potete capire...” Si allontanò dal cliente accanto a lei con un gesto rapido e nervoso. “Voi non sapete niente,” urlò, alzandosi improvvisamente.
Il gruppo restò in silenzio per un attimo. Lo gnomo non fece una mossa, ma i suoi occhi brillavano di soddisfazione per aver centrato la verità. Kethmer, tuttavia, aveva una sensazione di disturbo crescente. Il fischio nelle sue orecchie si stava alzando di nuovo, un bisogno di agire, di intervenire. La rabbia, l’impulso a fare giustizia, lo tormentavano. Ma quando il goblin, sempre più impaziente, chiese cosa fare, Kethmer non aveva ancora risposto.
In un lampo, un piccolo proiettile di sangue, come una saetta, partì dalla direzione di El, senza preavviso. La sfera rossa perforò la fronte della donna, che stramazzò sul divano con un suono sordo. La stanza divenne di colpo più silenziosa, il sangue che si mescolava al vecchio profumo di sudore e tabacco. Il cliente, completamente ignorante di quanto fosse accaduto, continuò a accarezzare la donna, baciandole la spalla come se nulla fosse. La sua ebbrezza lo rendeva completamente distante dalla realtà.
Kethmer guardò El, il suo sguardo carico di astio. “L’hai rubata,” mormorò, il fischio di frustrazione che saliva ancora più forte.
El si voltò lentamente verso di lui, la sua espressione impassibile. “Torniamo a casa,” disse con un tono che non ammetteva obiezioni.
Mentre il gruppo si girava per uscire, Kethmer sentiva un senso di inquietudine crescere dentro di lui. Ogni passo che facevano per uscire dal bordello sembrava aggiungere peso al fischio, come se l'aria stessa fosse stata infetta dalla morte appena inflitta. Ma non aveva scelta, non ancora. La verità era stata svelata, ma qualcosa di più oscuro, più profondo, stava affiorando.
Kethmer non sapeva ancora se fosse la sua vendetta, il suo controllo sul fischio, o qualcosa di più che si stava sviluppando in lui, ma quel momento avrebbe segnato un punto di non ritorno.
Fuori dal bordello, il gruppo si fermò per un momento, il peso dell’incertezza che gravava su alcuni di loro. Il goblin si stava strofinando nervosamente le mani, lo gnomo era immerso nei suoi pensieri, e Kethmer non poteva fare a meno di ripensare alla scena appena avvenuta, al cliente ignaro, e al corpo senza vita della donna.
Improvvisamente, dall’ombra, apparve l’alfiere, il suo corpo piccolo ma carismatico che si materializzava come un riflesso distorto. “Ben fatto,” disse con un tono soddisfatto, osservando il gruppo con occhi penetranti. “Avete portato a termine il contratto con efficienza e precisione.”
Kethmer serrò la mascella, fissandolo con sguardo torvo. Era consapevole che non c’era stato nulla di preciso o efficiente in quel caos. Tuttavia, non disse nulla, lasciando che fosse il goblin a rispondere, un nervoso: “Grazie…”
L’alfiere camminava con calma, le mani dietro la schiena, guidandoli lentamente verso la tana. Sembrava soddisfatto, quasi divertito. “Devo ammettere,” iniziò, “che mi avete stupito. Non tanto per come avete gestito il contratto, ma per il fatto che abbiate scoperto la verità.”
“Che intendi dire?” chiese lo gnomo, alzando un sopracciglio.
L’alfiere si fermò per un istante, voltandosi verso di loro con un sorriso enigmatico. “Sapevo già cosa era successo,” dichiarò con nonchalance. “Quando ho visitato il vicolo per la prima volta, prima di portarvi qui, avevo già ricostruito la scena. Il frammento di veste, i graffi, i segni di colluttazione… era tutto lì. Solo che volevo vedere se voi eravate in grado di arrivarci da soli.”
I quattro rimasero a fissarlo, increduli. El si limitò a stringere gli occhi, mentre Kethmer serrava i pugni. La frustrazione cresceva dentro di lui, il fischio che si intensificava ancora una volta.
“Quindi sapevi già tutto?” chiese il goblin, con un tono che tradiva un misto di incredulità e irritazione.
“Naturalmente,” rispose l’alfiere, riprendendo a camminare. “Ma un buon leader sa quando osservare e quando intervenire. Questo era un test, dopotutto.”
Il resto del viaggio fu silenzioso, ciascuno immerso nei propri pensieri. Kethmer sentiva una rabbia ribollire dentro di lui. Non era tanto per l’inganno dell’alfiere, ma per la sensazione che tutto fosse un gioco per quelle figure più alte della gerarchia.
Quando raggiunsero i giardini della tana, il sole stava tramontando, gettando ombre lunghe e distorte sulle mura imponenti. Kethmer alzò lo sguardo e notò due figure in lontananza.
La torre e il cavallo della Chiesa, la Mesvet incontrata nel primo giorno, stavano discutendo sottovoce. La vista della Mesvet fece irrigidire El, che tirò su il cappuccio della tunica per coprirsi il volto. Kethmer osservò la scena con attenzione, cercando di cogliere ogni dettaglio.
C’era qualcosa di inquietante in quella figura che El evitava di incontrare. Un passato, un segreto, o forse una semplice inimicizia radicata nel tempo. Ma qualunque fosse la verità, Kethmer sapeva che era solo l’inizio di qualcosa di molto più grande e oscuro.
Kethmer percorse il corridoio silenzioso della tana, il suono dei suoi passi che rimbalzava contro le mura fredde. Il tempo passato con i tre compagni di studio—El, il goblin e lo gnomo—gli sembrava già un ricordo distante, eppure ancora vivo nella sua mente. Arrivati davanti alla porta della sua stanza, si fermò, voltandosi per salutarli.
“È stato… interessante,” disse, con un tono incerto ma sincero, fissando i tre. Il goblin rispose con un cenno nervoso, lo gnomo con un sorriso fugace, mentre El lo guardò con il solito sguardo indifferente, il cappuccio ancora alzato. Poi si voltò e si incamminò senza una parola.
Prima di entrare, Kethmer si rivolse all’alfiere, che lo osservava con la stessa espressione enigmatica che lo aveva accompagnato per tutto quel periodo. “Grazie,” disse, con una nota di rispetto nella voce. “Per avermi istruito.”
L’alfiere sorrise, scuotendo la mano in aria come a minimizzare il gesto. “Non ringraziarmi. Ogni lezione appresa, ogni ferita inflitta o subita, appartiene solo a te. Io non ho fatto nulla.”
Con quelle parole, l’alfiere si allontanò, lasciandolo solo davanti alla porta. Kethmer spinse lentamente la maniglia, entrando nella stanza che ormai era diventata la sua prigione.
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La porta si chiuse dietro di lui con un suono pesante, definitivo. La stanza era la stessa di sempre: essenziale, fredda, priva di qualsiasi traccia di umanità o conforto. Kethmer si lasciò cadere sul letto, fissando il soffitto. Il fischio nelle orecchie sembrava ora parte di lui, un eco perpetuo che scandiva ogni momento della sua esistenza.
Era solo, come sempre. Solo con sé stesso, o ciò che ne rimaneva.
I pensieri si accavallarono nella sua mente, le immagini di ciò che aveva vissuto che si sovrapponevano senza logica. El con il suo sguardo glaciale, il goblin nervoso e lo gnomo metodico. La Mesvet della Chiesa, il corpo della donna bruna riverso sul divano, il cliente ignaro che la accarezzava ancora.
Sentiva il peso di tutto ciò che aveva visto e fatto, ma anche un vuoto, come se qualcosa dentro di lui si fosse spezzato definitivamente. La sua mente era un vortice, ma non trovava alcuna ancora a cui aggrapparsi.
Si passò una mano sul viso, il ricordo del tocco di El, della sua manipolazione, delle sue provocazioni, che si mischiava alla frustrazione per non aver avuto il controllo. Pensò alla torre, alla brutalità degli allenamenti, e a quanto quel gigante lo avesse spinto oltre i suoi limiti, forgiandolo a immagine della sua stessa violenza.
E infine, pensò a se stesso. A ciò che era diventato. Non era più un brigante, non era più un uomo, non era nemmeno una pedina. Era qualcosa d’altro, qualcosa che ancora non riusciva a definire.
Chiuse gli occhi, cercando il sonno che sapeva non sarebbe arrivato. Il fischio continuava, un sottofondo perpetuo che lo accompagnava in quella solitudine eterna.
“Che cosa rimane di me?” sussurrò al buio, ma non c’era risposta. Solo il fischio. Sempre il fischio.