Kethmer era un re senza corona, un sovrano delle ombre di Venetia, seduto sul trono scivoloso di una banda di disperati. La sua reggia si snodava nei labirinti di catacombe sotto una città che respirava veleno e corruzione. Qui, tra pietre consumate dal tempo e l’odore acre di muffa e sudore, Kethmer regnava con l’arroganza di chi ha visto il peggio e ne ha fatto uno scudo. Le sue mani, un tempo agili nel rubare pane per fame, ora si tendevano per bramosia, mentre il suo corpo bruciava sotto l’effetto di sostanze che gli annebbiavano i sensi e gli placavano i rimorsi.
Era un uomo spezzato che si era ricostruito con pezzi presi in prestito dal mondo: il carisma di un ladro, l’indifferenza di un edonista, la brutalità di un sopravvissuto. Si circondava di bottiglie vuote e di risate che non raggiungevano mai gli occhi, di prostitute il cui amore era tanto caldo quanto fugace. Non erano amanti, erano fantasmi che usava per scacciare gli altri spettri, quelli che infestavano i suoi ricordi. Volti dimenticati, amori che aveva lasciato svanire come il fumo che ora avvolgeva il suo respiro.
Kethmer si considerava un uomo potente, ma solo perché il mondo gli aveva insegnato a non abbassare mai la guardia. La sua arroganza era una maschera cucita addosso per nascondere il vuoto. Il dolore dell’abbandono, la disillusione dell’amore, l’angoscia di un’identità incerta. Aveva amato, sì, ma quegli amori erano stati consumati come candele lasciate ardere fino alla fine, fino a ridurre tutto in cera fredda e cenere.
Nelle sue vene scorreva l’inquietudine di un uomo che si era perso troppo presto, un bambino che non aveva mai smesso di correre nei vicoli, spaventato da un mondo troppo grande. Kethmer si diceva libero, ma sapeva che ogni passo, ogni furto, ogni tradimento lo aveva incatenato un po’ di più. Eppure, continuava a camminare a testa alta, trascinando le sue catene con la sicurezza di chi crede di averle domate.
Era arrogante, sì. Edonista, certamente. Ma sotto ogni risata amara e ogni sguardo gelido si nascondeva un cuore che batteva solo per ricordargli ciò che aveva perso e ciò che non avrebbe mai potuto essere.
Le catacombe sotto Lutmira respiravano come un animale morente. L'aria era densa, gravata dall'umidità e dall'odore di pietra vecchia e sangue fresco. Kethmer correva, il fianco lacerato, ogni passo una fitta, ogni respiro un’agonia. Al suo fianco, l'umano Helryk e il goblin Scurz, gli ultimi due della sua banda, condividevano il peso della paura e dell’adrenalina, schiavi di una speranza che si faceva sempre più tenue.
Venetia non era una città; era una bestia divoratrice, con la bocca spalancata verso il cielo e gli artigli affondati nel fango. Governata da un sindaco fantoccio, Jorvas Leek, la città obbediva ai sussurri dei Traduttori del Silenzio, una setta spietata di assassini che regnava dall’alto, alla luce del sole, le cui decisioni modellavano non solo la cittá, ma l’intero tessuto umano. Nobiltà e mercanti si prostravano davanti alla loro intelligenza calcolatrice, mentre i poveri e i disperati, come Kethmer e i suoi, vivevano delle briciole che cadevano dal tavolo del potere.
Kethmer aveva imparato a temerli, e ora sapeva che la loro ira non lasciava scampo. "Perché?" si domandavano lui e i suoi compagni, il fiato spezzato, il terrore che li mordeva alle calcagna. "Perché ci vogliono morti?"
“Non abbiamo preso nulla!” sibilò Helryk, le mani sporche di sudore e sangue. Aveva sempre avuto una bocca grossa, ma in quel momento la sua voce tremava come una foglia nel vento.
“Forse abbiamo messo le mani nel piatto sbagliato,” gracchiò Scurz, il goblin dalla pelle grigiastra. Non aveva la forza di Helryk, ma i suoi occhi acuti brillavano come lame. “O forse sanno qualcosa che non sappiamo.”
Kethmer non rispose. Le parole gli morivano in gola, soffocate dal dolore e dalla consapevolezza che qualunque fosse la verità, non avrebbe cambiato nulla. Il loro destino era già scritto, inciso su lastre di pietra da mani invisibili.
Loro correvano, ma i Traduttori erano più vicini. Kethmer lo sentiva nei passi che rimbombavano come tamburi nelle gallerie. Quando raggiunsero un passaggio stretto, si fermò, il respiro pesante come piombo.
“Non c’è scelta,” disse, la voce spezzata. “Li blocco qui.”
“Non fare stronzate, capo!” gridò Helryk, ma Kethmer aveva già alzato la mano ferita, mormorando parole arcane. Il potere di gravitomanzia scaturì da lui con un lamento silenzioso, e il soffitto del tunnel tremò. Le pietre caddero, chiudendo il passaggio, ma il prezzo fu alto. Il fianco già ferito si aprì di nuovo, il sangue gli scorreva caldo lungo la gamba. Kethmer crollò in ginocchio.
Helryk e Scurz lo sollevarono. “Non mollare” disse Helryk, con un tono che voleva sembrare incoraggiante ma che tradiva il panico. “Siamo quasi fuori. Resisti.”
Kethmer, sostenuto dai due, arrancò verso l’uscita. La scala dell’ossario si stagliava davanti a loro come una promessa di libertà. Ma appena si affacciarono alla luce pallida della chiesa, la speranza morì.
Ad attenderli c’erano tre figure. Un orco mastodontico con un’armatura di mithril e un martello che sembrava capace di abbattere le mura di una fortezza. Una mesvet, un’elfa pallida, dai capelli bianchi, con il viso diafano come la luna e pugnali che scintillavano al suo fianco. E uno gnomo avvolto in una veste nera, il volto nascosto dal cappuccio, una presenza che sembrava pesare come una catena sul cuore di chi lo guardava.
Kethmer vacillò, ma i suoi compagni lo tennero in piedi. “Ci pensiamo noi,” disse Helryk con un sorriso amaro. “Tu sei ferito. Apriamo noi la strada.”
Quelle parole furono le sue ultime. L’orco si mosse con una rapidità mostruosa, e il martello esplose contro Helryk in una pioggia di carne e sangue. Organi e viscere si sparpagliarono sulla pietra, colpendo persino il volto di Kethmer, che rimase pietrificato dal terrore.
Scurz non ebbe nemmeno il tempo di reagire. La donna scagliò due pugnali, uno lo centrò alla fronte, l’altro al cuore. Il goblin cadde senza un suono, come una marionetta con i fili spezzati.
Kethmer urlò, un grido di rabbia e disperazione. Con le ultime forze, lanciò un’onda d’urto che fece volare alcune panche, ma non scalfì l’orco. Esausto, crollò a terra, tossendo sangue.
Stolen from its rightful author, this tale is not meant to be on Amazon; report any sightings.
Quest’ultimo si avvicinò, lo ribaltò con un calcio, e gli infilò il pomolo del martello in bocca, scheggiandogli i denti, pronto a fracassargli il cervelletto. “Cosa pensavi di fare?” chiese con una voce gutturale.
Ma prima che potesse finire, l’elfa intervenne. “Torre, ricorda il nostro compito,” disse, con voce gelida. Poi si girò verso l’altra figura. “Preparalo.”
Kethmer vide una stoffa bianca avvicinarsi al suo volto, impregnata di un odore pungente. Sentì il mondo sbiadire, le voci dissolversi, mentre l’oscurità lo reclamava.
La luce dell’alba filtrava attraverso tende pesanti di velluto, un bagliore pallido che dipingeva la stanza di tonalità spente. Kethmer aprì gli occhi con fatica, il corpo indolenzito, la bocca secca come polvere. Si trovava su un letto troppo morbido per i suoi standard, circondato da mobili intagliati e un silenzio irreale. La testa gli pulsava, e un dolore lancinante al fianco gli ricordava la ferita che gli aveva quasi tolto la vita.
Tentò di muoversi, ma sentì il freddo metallo delle manette stringergli i polsi. La pelle delle mani era graffiata, segno del suo vano tentativo di liberarsi nel sonno. Si accarezzò istintivamente la bocca e sfiorò il dente spezzato, un ricordo tangibile dell’umiliazione subita.
Con un respiro affannoso, cercò il ciondolo che aveva sempre portato al collo, l’unico legame con un passato che ormai sembrava distante anni luce. Ma non lo trovò. La realizzazione lo colpì come un pugno allo stomaco, e il cuore gli martellò nel petto.
“Cerchi questo?”
La voce femminile ruppe il silenzio, fredda e distante come una lama di ghiaccio. Dall’angolo più buio della stanza, quasi emergendo dall’ombra stessa, comparve l’elfa. I suoi capelli bianchi riflettevano la luce mattutina con un bagliore freddo, mentre i suoi occhi, privi di emozione, lo scrutavano come se stesse valutando un oggetto, non una persona. Tra le dita sottili, faceva oscillare il ciondolo.
Kethmer non rispose. Gli occhi, tuttavia, tradivano la rabbia e la frustrazione che gli ribollivano dentro.
L’elfa inclinò leggermente la testa, un movimento lento, quasi teatrale. “Ti stai chiedendo perché non ti abbiamo ucciso?” domandò, la sua voce un sussurro velenoso. Si avvicinò al letto con una grazia inquietante, come se scivolasse sul pavimento. Quando fu abbastanza vicina, gli afferrò il mento con dita gelide, costringendolo a guardarla.
“Avrei preferito morire,” sibilò Kethmer, distaccandosi di scatto dalla sua presa. Ma il gesto gli costò caro; un dolore bruciante gli attraversò il fianco, facendolo ricadere sul materasso.
L’elfa non batté ciglio. Inclinò ancora la testa, un accenno di un sorriso sfiorò le sue labbra, ma non raggiunse mai gli occhi. “Oh, ma tu non puoi morire,” disse con una freddezza che sembrava scolpita nel marmo. “Non ancora. Non finché non ripagherai il suo debito.”
Kethmer la fissò, confuso, il respiro spezzato. “Che diavolo significa?” mormorò, quasi con disperazione.
L’elfa lasciò che il silenzio si prolungasse, il ciondolo ancora sospeso tra le sue dita. Poi parlò, con un tono che portava con sé il peso di un verdetto.
“Vedi, nel nostro gruppo ci sono dogmi,” iniziò, scuotendo il ciondolo come un pendolo. “Uno di essi è che i ruoli ci definiscono, sempre. Durante i contratti, nelle operazioni, persino quando dormiamo. Ognuno di noi ha un nome, un significato. Una Torre. Un Cavallo.” Fece una pausa, il suo sguardo si fece più tagliente. “Un Alfiere. Tuo padre era uno di loro.”
La rivelazione fu come un colpo. Kethmer rimase immobile, le parole gli si bloccarono in gola.
“E qui sta la tua sfortuna,” continuò l’elfa. “Tuo padre era un Alfiere. Un ruolo importante, ma anche sacrificabile. E morì con un contratto importante nelle mani. Un contratto che ora è passato a te.”
“Non conosco mio padre!” sbottò Kethmer, cercando di allontanarsi da lei, ma le manette e il dolore lo trattennero. “Non c’entro nulla con voi!”
L’elfa lo ignorò, afferrandogli il viso con più forza, costringendolo a fissarla. I suoi occhi erano come lame di ghiaccio. “Rispondi, Pedina. Ti è chiaro? Esistono cose peggiori della morte… e dei debiti.”
Il silenzio calò nella stanza, e Kethmer alla fine annuì, sconfitto. L’elfa lo lasciò andare, aggiustandosi distrattamente i capelli. “Bene. Ora ascoltami. Per una questione di regole, non posso permetterti di prendere lo stesso contratto che tuo padre aveva. Sei una Pedina, nulla di più. Quindi, l’unica alternativa è che tu ripaghi il valore del contratto… in lavori.”
Fece una pausa, osservando le sue reazioni. “Per precisione, il debito ammonta a 950.000 monete d’oro. Penso che rimarrai con noi per molto, molto tempo. Se sopravviverai.”
La sua voce si abbassò in un sussurro tagliente. “Riposa ora, Pedina. Domani vedremo cosa sai fare. E credimi, sarà molto… divertente.”
Kethmer scivolò in una spirale di pensieri densi e fumosi che si abbattevano sulla sua psiche, in maniera ridondante, costringendolo ad alzarsi per andare a vomitare più volte in un vaso.
“Fottuta troia.” ripeteva tra sè e sè.
Passò il pomeriggio a rimuginare, provò a guardare fuori dalla finestra ma pareva sbarrata, la porta? Chiusa da fuori.
Il panico e la debolezza si fecero strada dentro di lui, come vermi necrofagi di fronte a un uomo già morto.
Cadde esausto la notte, un mal di testa atroce a contorcersi in lui.
La notte si spalancò su Kethmer come un abisso insondabile, tirandolo giù in un sogno che pareva scavato da mani antiche. Si trovò bambino, di nuovo, un’ombra agile tra i vicoli frastagliati di Lutmira. Rideva, leggero come il vento, ignaro del mondo che lo circondava. Girò un angolo e si scontrò contro qualcosa che non apparteneva a quel gioco: una figura scura, slanciata, avvolta in un’aura di gelo. La donna, dai capelli bianchi come ossa, lo osservava con occhi che non conoscevano pietà.
Un uomo si materializzò alle sue spalle. Suo padre, o almeno colui che l’aveva trovato tra i rifiuti. L’uomo si piegò in scuse sommessamente mormorate, prese il bambino e lo trascinò via, ma non prima di scagliare uno schiaffo che esplose come un tuono nel silenzio.
La scena si sgretolò. Ora era un ragazzo sui tetti di Lutmira, le dita che rubavano il pane con movimenti furtivi, un gesto che bruciava di giovinezza e necessità. Portava il bottino a quell’uomo, ma trovava solo sguardi di disapprovazione. “Non con il furto,” dicevano le parole, mentre un altro colpo lo colpiva, un altro segno inciso nella carne della memoria.
L’oscurità inghiottì quel ricordo e ne rigurgitò un altro, più amaro. Una donna, una voce, una promessa. Lei gli chiedeva di lasciare tutto, di abbandonare la banda, il caos, per costruire qualcosa insieme. Ma la famiglia scelta da Kethmer era una gabbia che non voleva spezzare. Le sue mani scivolarono via, e con esse un altro ceffone, un altro addio.
Kethmer osservava i ricordi come se fossero lontane costellazioni, frammenti di luce distorti dal tempo. Un sussurro si levò dalle ombre.
“Non ti hanno mai compreso, povero caro…” La voce lo avvolse come seta avvelenata. “Ti sei sforzato così tanto, eppure…”
Un nodo gli serrò il petto. Le lacrime sgorgarono come un fiume nascosto troppo a lungo.
“Non desideri peso nelle tue azioni? Non desideri essere visto? Essere potente, grande, al di sopra di ogni paura? Non vuoi, finalmente, rispettare l’immagine che lo specchio riflette?”
Le lenzuola si strinsero attorno a lui, come serpi che lo cullavano e lo divoravano al contempo. Una carezza calda, ingannevole, gli asciugò le lacrime.
“Sì,” sussurrò Kethmer. “Lo voglio.”
“Posso darti ciò che cerchi,” rispose la voce. “Ma c’è un prezzo. Una cosa da darmi in cambio.”
“Cosa?” domandò Kethmer, la sua voce fragile come cristallo.
“Il nome che hai perso. Da quando ti risveglierai, tu sarai Pedina, e io sarò Kethmer. Così per sempre.”
Per un istante, il buio lo guardò, lo scrutò come un giudice severo. Poi lui annuì, un bambino sconfitto dal peso delle sue lacrime.
“Prenditi pure il mio nome,” disse, “se ciò cambierà le cose.”
Non ci fu risposta. Solo il silenzio, denso come il piombo, a tenergli compagnia mentre la notte si dissolveva e una nuova alba lo chiamava al suo destino.