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Acufene [Italiano]
Capitolo III: Il suono del tormento

Capitolo III: Il suono del tormento

Kethmer giaceva sul pavimento della cella, i muscoli contratti e il corpo in preda a un'agitazione che non riusciva a placare. Il bisogno di dormire era un macigno che lo schiacciava, ma ogni volta che chiudeva gli occhi, i fischi nelle orecchie si trasformavano in un urlo disarmonico, un lamento che sembrava provenire da un luogo impossibile.

Si contorse, il fianco rigido, le mani che si serravano sul viso. I suoni erano ovunque, prima lontani come echi sotterranei, poi improvvisamente vicini, come se qualcuno stesse urlandogli direttamente nell'orecchio. Ogni rumore sembrava colpire il suo cranio con una forza sorda, il timpano che pulsava in sincronia con quel ritmo distorto.

Con un gemito soffocato, Kethmer portò una mano all'orecchio e iniziò a graffiarlo. Il dolore era feroce, ma non riusciva a smettere. Le unghie incidevano la pelle, cercando disperatamente di spegnere quel suono che lo stava consumando. Strapparlo via. Deve smettere. Deve finire.

Non sapeva quanto tempo fosse passato. Ore? Giorni? La fame si faceva sentire come una fiamma nel ventre, ma il bisogno di sonno era ancora più feroce. Gli occhi bruciavano, ma non si chiudevano mai abbastanza a lungo. Ogni respiro era una lotta, ogni battito del cuore un martello contro le sue tempie.

Poi sentì il clangore di una grata che si apriva. Un’ombra enorme si stagliò davanti a lui: la Torre. L’orco era una montagna di muscoli e acciaio, il volto che lo fissava con un’espressione vuota, quasi annoiata.

“Alzati,” grugnì l’orco. Quando Kethmer non rispose immediatamente, il gigante fece un passo avanti e lo afferrò per un braccio, sollevandolo con una forza brutale. “Se fai qualcosa di strano, ti spacco le gambe,” aggiunse con voce gutturale, senza nemmeno guardarlo negli occhi.

Kethmer annuì debolmente, la testa china, il corpo che seguiva l’orco come un’ombra trascinata da una luce troppo pesante. Non ricordava quasi nulla: dove si trovava, perché fosse lì, nemmeno il proprio nome. Ogni pensiero era un caos confuso, e il suo corpo si muoveva solo perché costretto.

Fu portato in una stanza spoglia, le pareti grezze macchiate di sangue secco che si incrostava come cicatrici. L’odore era denso, ferroso, quasi dolciastro. Una sedia lo attendeva al centro, le gambe inchiodate al pavimento di pietra. La Torre lo spintonò, e Kethmer crollò sul sedile, le cinghie che gli vennero serrate attorno ai polsi e alle caviglie con movimenti rapidi e precisi.

Davanti a lui, un gruppo di figure lo osservava. Una di loro si agitava visibilmente: il Cavallo, l’elfa dai capelli bianchi. La riconobbe, ma il suo volto ora sembrava lontano, come se appartenesse a un sogno sfocato. Stava discutendo animatamente con due alfieri: lo gnomo, lo stesso della chiesa, e un uomo umano dai capelli scuri e l’aria severa.

Non riusciva a capire le parole. Erano un miscuglio di suoni ovattati e colpi sonori che gli martellavano le tempie. Le voci salivano e scendevano, come onde che si infrangevano contro una costa. Di tanto in tanto, uno dei presenti lo indicava, ma il significato di quei gesti gli sfuggiva completamente.

La Torre si appoggiò al muro dietro di lui, le braccia incrociate, mentre Kethmer continuava a fissare il gruppo, il suo sguardo vuoto e perso. Non sapeva cosa stesse per accadere. Non sapeva nemmeno chi fosse, o perché avesse paura.

Kethmer fissava il gruppo davanti a sé, le figure che sembravano sfocate, come se fossero viste attraverso un vetro sporco. L’elfa, il Cavallo, stava discutendo animatamente con l’umano e lo gnomo, i movimenti delle sue mani taglienti come lame. La sua voce era ovattata, ma i suoi gesti erano pieni di tensione, come se stesse combattendo una battaglia invisibile.

Poi si mosse qualcosa nell'ombra. La Torre. L’orco avanzava verso Kethmer, e la discussione tra gli altri si fece più concitata. Lo gnomo e l’umano cercarono di fermarlo, le mani alzate e le parole che si intensificavano, ma la Torre non si fermò.

La presenza dell’orco riempì la stanza, un’ondata di pressione che faceva sembrare il mondo più piccolo. Kethmer lo fissò con occhi sgranati, troppo debole per reagire. Il tempo sembrò rallentare mentre la Torre alzava il martello. Non ci fu alcuna esitazione, alcun avvertimento.

Uno schianto.

Il dolore fu rapido, acuto, devastante. Il mondo di Kethmer si spense, inghiottito dal buio.

Quando tornò alla coscienza, tutto era confuso. La sua visione era distorta, offuscata da ombre e lampi di luce. I fischi nelle sue orecchie erano insopportabili, un lamento perforante che sembrava volerlo strappare a brandelli dall’interno.

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Vide i due alfieri avvicinarsi. L’umano dai capelli scuri si chinò su di lui, scrutandolo con occhi glaciali. Lo gnomo si avvicinò subito dopo, il volto nascosto dal cappuccio, ma le mani esperte si mossero con precisione inquietante. Lo stavano studiando, come si osserva un animale in gabbia, un soggetto da analizzare.

Kethmer non riusciva a parlare, a muoversi. Sentì qualcosa entrare nel suo naso, una sensazione strana e opprimente. Fumo. Freddo, denso, che si insidiava dentro di lui, come un veleno che cercava di attecchire nel suo corpo. Tossì, ma non riuscì a liberarsene.

Poi le boccette. Le vide nelle mani dello gnomo: piccoli contenitori di vetro che brillavano alla luce fioca della stanza. Il liquido al loro interno ribolliva, ogni goccia sembrava viva. Lo gnomo ne aprì una, e senza esitazione gliela rovesciò sul petto.

Bruciava.

La pelle di Kethmer sfrigolava, l’acido che si infiltrava nei tessuti, lasciando solchi di carne viva. Cercò di gridare, ma non uscì alcun suono, solo un rantolo soffocato. Un’altra boccetta si infranse sulla sua spalla, una sostanza diversa, ma altrettanto dolorosa. Ogni goccia era un coltello rovente che si insinuava nella carne, un dolore che non riusciva a contenere.

L’umano osservava, con un’espressione impassibile. Lo gnomo continuava a versare liquidi diversi, alternandoli con una precisione maniacale. Gli acidi si mescolavano, i vapori che salivano e gli occhi di Kethmer che si riempivano di lacrime. Sentì la pelle strapparsi, sciogliersi, poi rigenerarsi, solo per essere distrutta di nuovo.

“Interessante,” disse finalmente lo gnomo, con una voce tagliente come vetro. L’umano annuì, mentre prendeva un’altra boccetta e la osservava attentamente.

Kethmer non sapeva più dove fosse. Il suo corpo era un campo di battaglia, un terreno su cui stavano sperimentando senza pietà. Ogni istante era un tormento, e ogni fischio nelle orecchie sembrava urlare che non sarebbe mai finito. Chi sono? pensò, mentre il dolore lo divorava. Chi ero?

Ma non c’erano risposte, solo l’acido che bruciava e i sussurri freddi degli alfieri che continuavano a studiarlo.

Kethmer venne slegato dalla Torre con la stessa brutalità con cui era stato legato. Le cinghie che serravano i suoi polsi e caviglie furono rimosse con uno strattone, e senza aspettare che potesse alzarsi da solo, l’orco lo afferrò come fosse un sacco e lo trascinò fuori dalla stanza. Le gambe di Kethmer strisciavano sul pavimento sporco, il corpo ancora scosso dai fischi nelle orecchie e dalle bruciature che pulsavano sulla pelle rigenerata.

Non ricordava più il suo nome, né cosa lo avesse portato lì. Ricordava solo il dolore e il senso di vuoto che sembrava scavargli il petto.

L’orco non disse nulla durante il tragitto, e Kethmer non ebbe la forza di fare domande. Camminarono per quello che sembrava un’eternità attraverso corridoi lugubri e silenziosi, le torce che proiettavano ombre tremolanti sulle pareti. Alla fine, la Torre aprì una porta e lo gettò dentro con un gesto disinteressato.

Kethmer atterrò sul pavimento con un tonfo, i gomiti che colpirono il legno lucido. Sollevò lo sguardo e si ritrovò nella stanza ben arredata in cui era stato rinchiuso all’inizio. L’arredamento elegante e i tendaggi pesanti sembravano quasi una beffa, una farsa messa in scena per ricordargli quanto fosse piccolo e insignificante in quel luogo. La porta si chiuse dietro di lui con un clangore secco, lasciandolo solo.

Si trascinò fino al letto, sperando che il sonno, questa volta, sarebbe arrivato. Si accasciò tra le coperte, il corpo ancora in preda ai tremori. Ma i fischi nelle orecchie tornarono, più forti, più insistenti. Ogni volta che chiudeva gli occhi, il suono si trasformava in urla e lamenti, e un dolore pulsante si faceva strada nel suo cranio.

Il tempo si dilatò ancora una volta, e quando il primo bagliore del sole penetrò dalla finestra, Kethmer era ancora sveglio, gli occhi iniettati di sangue e la mente vuota.

Quando la porta si aprì, la luce del mattino illuminò una figura piccola e minuta. Un halfling entrò nella stanza, vestito con una tunica semplice e un collare di metallo stretto intorno al collo. I suoi movimenti erano rapidi, nervosi, e Kethmer notò il tremolio delle sue mani mentre reggeva un vassoio pieno di cibo.

L’halfling non disse nulla, non alzò nemmeno lo sguardo. Si avvicinò al centro della stanza e posò il vassoio a terra con un gesto brusco, come se volesse liberarsene il prima possibile. Kethmer, per la prima volta in giorni, tentò di parlare.

“Ehi…” mormorò, la voce roca e spezzata. “Aspetta…”

Ma prima che potesse dire altro, l’halfling si ritrasse di scatto, come se avesse toccato qualcosa di velenoso. Gli occhi si spalancarono per un istante, pieni di paura, e il piccolo servitore scappò dalla stanza senza guardarsi indietro. La porta si chiuse con un suono che riecheggiò nella mente di Kethmer, lasciandolo di nuovo solo.

Si voltò lentamente verso il vassoio. L’odore del cibo lo colpì come un’ondata, e il suo stomaco reagì con un brontolio feroce. Si avvicinò carponi, troppo debole per alzarsi in piedi. Le mani tremanti si allungarono verso il cibo.

Non pensò a sollevare il vassoio o a sedersi. Iniziò a mangiare direttamente da terra, afferrando il cibo con le mani e portandolo alla bocca con movimenti frenetici. Il sapore lo travolse, anche se non riusciva a distinguerlo. Carne, pane, frutta: tutto si mescolava in un’unica massa che inghiottiva senza nemmeno masticare.

Il cibo cadeva dalle sue mani, si mescolava alla polvere del pavimento, ma Kethmer non si fermò. Ogni boccone era un disperato tentativo di riempire il vuoto che sentiva dentro, ma non bastava. Non bastava mai.