Gli allenamenti ricominciarono, ma questa volta Kethmer si sentiva diverso. Il suo corpo, temprato da settimane di fatica e dolore, rispondeva ai comandi con precisione e fluidità. Ogni movimento era più naturale, ogni schivata più rapida. Era come se i suoi muscoli avessero finalmente imparato a danzare al ritmo imposto dalla Torre.
L’orco lo osservava con uno sguardo diverso, meno critico, quasi compiaciuto. “Non male, Pedina,” grugnì un giorno, dopo che Kethmer riuscì a deviare un colpo che una volta lo avrebbe mandato al tappeto. “Forse è ora che tu smetta di combattere come un microbo.”
Kethmer si fermò, il respiro pesante ma controllato. “Cosa intendi?” chiese, asciugandosi il sudore dalla fronte.
“Armi,” rispose la Torre, avvicinandosi alla rastrelliera che occupava un lato dell’arena. “È ora che impari a usarne una. Sei cresciuto abbastanza da non essere più solo un bersaglio. Allora, Pedina, qual è la tua arma?”
Kethmer ci pensò per un momento, poi rispose con un accenno di esitazione. “I pugnali,” disse. “Li usavo quando ero un brigante. Sono… familiari.”
La Torre scoppiò in una risata profonda, scuotendo la testa. “Pugnali? Davvero? E io che pensavo avessi imparato qualcosa.” Fece un gesto verso la rastrelliera. “Quelli sono per i deboli. Tu non sei più un microbo, Pedina. Puoi scegliere qualcosa di più… adatto.”
L’orco si voltò e tirò fuori un’arma che sembrava fuori posto in quel luogo. Era una lama lunga e leggermente ricurva, con un’impugnatura avvolta in seta scura e senza guardia. La spada stessa era imponente, lunga 2,3 metri, circa 50 centimetri più alta di Kethmer.
“Questa,” disse la Torre, sollevandola con una sola mano come se fosse di piuma, “è una Ōshinku, la Lunga lama delle isole dell’ovest. È più di una spada. È un’estensione del tuo corpo. Serve equilibrio, forza e precisione per maneggiarla. Non è per chiunque. Ma tu,” aggiunse, con un ghigno, “potresti essere abbastanza equilibrato da riuscirci.”
Kethmer fissò la spada, il suo peso e la sua lunghezza lo intimidivano. Era un’arma progettata per tagliare a distanza, per mantenere il controllo su un campo di battaglia. “Non so…” iniziò, ma la Torre lo interruppe.
“Non c’è spazio per i dubbi,” disse l’orco, mettendogli la spada tra le mani. Il peso della lama lo fece vacillare per un momento, ma Kethmer strinse i denti e cercò di adattarsi. “Provala,” disse la Torre, spostandosi indietro. “Vediamo se sei davvero pronto.”
Kethmer impugnò la Ōshinku, la sensazione del metallo e della seta che si mescolavano al calore delle sue mani. Fece un primo movimento, goffo e maldestro, la punta della lama che raschiava il terreno. La Torre sbuffò, ma non lo fermò. “Continua,” ordinò.
Passarono ore. Kethmer inciampò, cadde, e maledisse più volte il peso della lama e la lunghezza che sembrava impossibile da controllare. Ma ogni errore lo portava un passo più vicino alla comprensione. Ogni movimento diventava più fluido, più naturale.
Quando il sole tramontò, la Torre lo fermò. “Non male,” disse, con un accenno di approvazione. “Forse c’è speranza per te, Pedina. Ma ricorda: questa lama non ti perdonerà mai. Se perdi il controllo, ti tradirà. Trattala con rispetto, e ti ricompenserà. La Ōshinku è la tua nuova vita. Falla tua.”
Kethmer annuì, il corpo esausto ma la mente determinata. La lunga spada era un peso, ma uno che voleva imparare a sopportare.
Gli allenamenti cambiarono ancora. La Ōshinku, con la sua lunghezza imponente e il suo peso inesorabile, richiedeva a Kethmer una concentrazione costante e una precisione che non aveva mai conosciuto. Ogni giorno era una lezione di equilibrio, ogni passo un esercizio di controllo. La Torre sembrava più paziente, più incline a correggere che a colpire, e Kethmer cominciò a vedere l’orco non solo come un avversario, ma come una guida.
Con il passare delle settimane, Kethmer iniziò a porre domande. Non si accontentava più di eseguire ordini; voleva capire.
“Quante pedine ci sono davvero?” chiese un giorno, durante una pausa.
La Torre lo fissò per un momento, il volto indecifrabile. “Abbastanza,” rispose infine. “Ma non è affar tuo sapere chi sono o dove sono.”
“Perché io sono sempre rinchiuso nella mia stanza?” insistette Kethmer. “Gli altri sembrano liberi. Io no.”
L’orco sbuffò, incrociando le braccia. “Perché sei diverso, Pedina. Non possono capirti. La maggior parte degli altri teme quello che non comprende. E tu sei qualcosa che non riescono a comprendere. Non muori. Ti rigeneri. Per loro, sei più vicino a un mostro che a un compagno.”
Quelle parole pesarono su Kethmer, ma non lo fermarono. Continuò a chiedere, a cercare di conoscere di più quel mondo oscuro in cui era stato gettato. La Torre, a volte, rispondeva, altre volte lo liquidava con una risata o un commento tagliente.
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Quel giorno iniziò come tanti altri. Kethmer era nell’arena, sudando e affannandosi mentre maneggiava la Ōshinku, la lama che ormai era diventata un’estensione del suo corpo. Gli allenamenti erano estenuanti, ma lui li affrontava con determinazione, il suo odio per la Torre ormai trasformato in una rivalità che spingeva entrambi oltre i limiti.
“Fermati,” grugnì l’orco, alzando una mano. Kethmer abbassò la lama, il respiro pesante, il corpo tremante per lo sforzo.
“Leva quei pesi,” ordinò la Torre, indicando le cavigliere e le polsiere appesantite che Kethmer indossava da settimane. Per un attimo, l’elfo esitò, ma poi obbedì, slacciando i ganci e lasciandoli cadere al suolo con un tonfo sordo.
La sensazione fu immediata. Il corpo di Kethmer si sentì leggero, quasi etereo. Ogni movimento era fluido, rapido, come se avesse improvvisamente acquisito una forza e una velocità che non sapeva di possedere. Impugnò la Ōshinku e fece un colpo di prova nell’aria, sentendo l’ebbrezza del suo potere.
L’orco lo osservava con attenzione, il ghigno di soddisfazione che si allargava sul suo volto cicatrizzato. “Non male, Pedina,” disse, incrociando le braccia. “Vedi cosa succede quando superi i tuoi limiti?”
Kethmer si voltò verso di lui, il fiato ancora corto ma gli occhi pieni di una nuova determinazione. “Hai pesi più pesanti?” chiese, la voce decisa.
Per un istante, la Torre rimase in silenzio, come se quelle parole lo avessero sorpreso. Poi scoppiò in una risata gutturale, scuotendo la testa. “Forse sei più pazzo di quanto pensassi, microbo,” disse, ma il suo tono tradiva un certo compiacimento. “Ne troverò di più pesanti per te. Vedremo quanto riesci a sopportare.”
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Più tardi, mentre Kethmer riposava, l’orco si presentò con una nuova proposta. “Abbiamo un contratto,” annunciò, senza preamboli.
Kethmer si alzò, il corpo ancora dolorante dagli allenamenti. “Chi devo uccidere stavolta?”
“Non chi,” rispose la Torre, con un ghigno sprezzante, “ma cosa. Una banda di predoni sta creando problemi al sindaco. I Traduttori hanno deciso che è ora di eliminarli. E tu, Pedina, sei l’arma scelta.”
Kethmer annuì lentamente. Sembrava un compito diretto, senza ambiguità. Ma l’orco non aveva ancora finito.
“Non sarai solo,” continuò, la voce che si abbassava in un tono di disprezzo. “Dovrai lavorare con due pedine di un’altra Torre.”
Kethmer lo guardò con sorpresa. “Di un’altra Torre? Perché?”
L’orco sbuffò, il ghigno trasformato in una smorfia. “La loro Torre è… diversa. Un moralista. Crede nelle regole, nell’onore dell’assassino. Una dannata illusione in un mondo come il nostro. Le sue pedine sono altrettanto insopportabili, ma sanno combattere. Tu, però, sei il migliore. E voglio che lo dimostri.”
L’idea di lavorare con altri lo metteva a disagio, ma non poteva rifiutare. “Chi sono?” chiese.
“Li conoscerai domani,” rispose l’orco, voltandosi per uscire. “Ma ricorda: questo non è un test. Dimostra a tutti che sei più di una Pedina.”
Kethmer rimase in silenzio, fissando la porta che si chiudeva dietro la Torre. L’idea di affrontare una banda di predoni non lo spaventava. Ma lavorare con altri, persone che non comprendevano chi fosse o cosa fosse diventato, era una sfida completamente diversa. Un nuovo peso da sopportare.
La luce del mattino filtrava nella stanza quando Kethmer sentì il leggero bussare alla porta. Era l’halfling, che entrò silenziosa con un vassoio colmo di cibo. Era un pasto abbondante, più del solito: pane fresco, carne salata, frutta, e un boccale d’acqua limpida. Kethmer lo osservò mentre posava il vassoio, il suo volto sempre impassibile.
Quando finì, la Torre entrò nella stanza, imponente come sempre. “Alzati, Pedina,” grugnì. “Il giardino ci aspetta.”
Seguì l’orco in silenzio, i muscoli tesi per l’ennesima giornata di incertezza. Quando uscirono, si trovò in un’ampia corte all’aperto, circondata da mura alte e decorate con motivi floreali. Ma l’attenzione di Kethmer non fu catturata dall’architettura, bensì dalle tre figure che li attendevano.
Un nano stava al centro del gruppo, vestito in maniera semplice ma con un portamento che emanava autorità. La sua forma tozza e quasi quadrata sembrava fatta di pietra, un’immagine amplificata dalla barba folta che gli copriva il petto. Al suo fianco, un orco e un umano, entrambi di grossa stazza, fissavano Kethmer con sguardi sprezzanti. Per un momento, l’elfo si sentì un fuscello al confronto, un’ombra che si stagliava tra montagne di carne e muscoli.
Le due Torri si scambiarono un cenno breve ma significativo. C’era una tensione sottile tra di loro, un rispetto forzato che mascherava a stento una reciproca antipatia. Il nano, che evidentemente era la Torre responsabile delle due pedine, avanzò di un passo e iniziò a parlare.
“Questo contratto,” disse, con una voce bassa e ruvida che sembrava adatta alla sua figura, “richiede precisione e efficienza. La banda di predoni che dobbiamo eliminare ha causato danni significativi al commercio locale e ha osato sfidare l’autorità della città. Non possiamo tollerare ulteriori insubordinazioni.”
Il suo sguardo passò lentamente su ciascuna delle pedine, fermandosi brevemente su Kethmer, il cui volto rimase impassibile. “Voglio che il lavoro sia svolto in maniera pulita,” continuò. “Niente caos, niente spettacoli inutili. Uccidete il meno dolorosamente possibile e il più velocemente possibile. Non c’è bisogno di crudeltà. È un messaggio, non un massacro.”
Le parole del nano avevano un tono che Kethmer non riconobbe subito: morale. Era quasi alieno in quel contesto, e il disprezzo negli occhi della Torre di Kethmer era evidente. L’orco incrociò le braccia, scuotendo leggermente la testa, come se trovasse ridicola ogni parola.
Kethmer sentì il peso degli sguardi su di lui, dei due colossi che lo fissavano con una combinazione di disprezzo e curiosità. Non sono come loro, pensò. E loro lo sanno.
Ma sapeva anche che non aveva scelta. Questo era il suo compito, il suo ruolo. Una pedina non fa domande. Una pedina agisce.
Il carro si mosse lentamente tra i vicoli della città, il rumore delle ruote che scricchiolavano sul pavimento di pietra. Il gruppo sedeva in silenzio, avvolto da un’atmosfera imbarazzante e carica di tensione. Kethmer si trovava stretto tra la massa imponente dell’umano e dell’orco della squadra del nano, i loro sguardi sprezzanti che ogni tanto si posavano su di lui, come a ricordargli che non lo consideravano uno di loro.
La Torre di Kethmer rimaneva in disparte, osservando senza interferire, mentre il nano, seduto a braccia incrociate, manteneva un silenzio marziale che sembrava permeare l’intero gruppo.
Quando uscirono dalla città e si inoltrarono nelle campagne, il silenzio divenne ancora più pesante. L’aria era fresca, ma il viaggio sembrava durare un’eternità. Alla fine, il carro si fermò davanti a un piccolo casolare isolato. Una figura li attendeva.
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Era un uomo vestito da contadino, ma il portamento e la postura tradivano la sua vera natura. I suoi occhi attenti, il corpo teso come una molla pronta a scattare, e l’atteggiamento vigile parlavano chiaro: era una guardia cittadina. Quando il gruppo scese, l’uomo li accolse con un cenno del capo e senza parole li condusse verso un punto strategico poco distante.
Dalla loro posizione, la corte era chiaramente visibile. Una struttura massiccia, circondata da campi che si estendevano fino all’orizzonte. Dalle finestre e dai cancelli si scorgeva movimento, figure armate che pattugliavano i perimetri. L’aria era intrisa di tensione.
“Quelli sono i briganti,” spiegò la guardia, la voce ferma. “Hanno massacrato la famiglia che viveva lì. Le donne sono state violentate prima di essere uccise. Si sono insediati nella corte e sono ben armati, in guardia. Non sarà facile cacciarli.”
Le parole caddero come pietre, ma non provocarono alcuna reazione visibile tra i presenti. Il nano annuì lentamente, poi si voltò verso le sue pedine. “Allora,” iniziò, con un tono che suggeriva esperienza e comando. “Come intendete procedere?”
L’umano e l’orco si scambiarono uno sguardo, poi iniziarono a parlare, le voci basse ma piene di una falsa sicurezza.
“Potremmo aspettare la notte,” suggerì l’umano, scrutando la corte con un’aria da stratega. “Avvicinarci silenziosamente e attaccare mentre dormono.”
“Oppure,” aggiunse l’orco, “potremmo distrarli con un’esca. Fare in modo che qualcuno li attiri fuori e li separi.”
Continuarono così per diversi minuti, scambiandosi idee e piani, ma ogni frase sembrava più indecisa della precedente. “Potremmo fare questo… potremmo fare quello…” Era un balletto di ipotesi che non portava da nessuna parte.
Kethmer, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, cominciò a sentire la frustrazione crescere dentro di sé. Le parole degli altri si trasformavano in un ronzio insopportabile, il fischio nelle sue orecchie che si faceva più forte. Alla fine, non riuscì più a trattenersi.
“Basta!” esclamò, la voce tagliente che fece voltare tutti verso di lui. Fece un passo avanti, in un tono febbrile, come un’estensione della sua rabbia. “Andiamo e spacchiamoli di botte! Non serve un piano perfetto, basta farli a pezzi e basta.”
Il suo tono concitato e la semplicità brutale delle sue parole lasciarono un momento di silenzio tra i presenti. L’umano e l’orco lo guardarono con una miscela di disprezzo e sorpresa, mentre il nano si accarezzò la barba, valutando le sue parole.
La Torre di Kethmer ridacchiò, un suono basso e gutturale. “Almeno la Pedina ha fegato,” disse, gettando un’occhiata di sfida al nano.
Il nano non rispose subito, ma il suo sguardo si fece più duro. “La fretta è per gli stolti,” disse infine, con un tono che cercava di riprendere il controllo. “Ma a volte la semplicità vince. Vedremo.”
Kethmer strinse i denti, il cuore che batteva forte. Sapeva di aver attirato attenzione, ma non sapeva se fosse quella giusta. Era stanco di giocare secondo le regole degli altri.
Kethmer stava in disparte mentre gli altri due pedine si preparavano, i loro scudi che brillavano sotto il sole alto e i martelli da guerra appoggiati con sicurezza sulle spalle larghe. Le armature leggere che indossavano sembravano abbastanza robuste da respingere qualche colpo, ma non così pesanti da rallentarli. Si muovevano con una confidenza che Kethmer trovava irritante, come se il loro equipaggiamento fosse tutto ciò di cui avessero bisogno per sopravvivere.
Lui, al contrario, era a mani nude. Nessuna lama, nessuno scudo. Sottovalutato. Lo percepiva negli sguardi dell’umano e dell’orco, che lo consideravano un peso più che un alleato.
Alla fine, il nano prese una decisione. “Tu,” disse, indicando Kethmer con un gesto del mento. “Vai avanti. Sei più rapido e…” fece una pausa, il tono carico di disprezzo mascherato da praticità, “meno visibile. Ti seguiremo e ti copriremo le spalle. Quando li distrai, attaccheremo.”
Pavidi. La parola balzò nella mente di Kethmer come un veleno. Non c’era strategia nel loro piano, solo vigliaccheria. Lo stavano mandando in avanscoperta, una pedina sacrificabile per attirare l’attenzione.
Non protestò. Non ne aveva bisogno. Che continuassero a sottovalutarlo. Sarebbe stato lui a dimostrare quanto poco lo capissero.
Si tolse i pesi da caviglie e polsi con movimenti lenti e deliberati, lasciandoli cadere al suolo con un tonfo sordo che attirò gli sguardi dei presenti. L’umano lo guardò con una smorfia di perplessità, mentre l’orco fece un verso di disapprovazione. Il nano non disse nulla, ma il suo sguardo tradiva un lampo di curiosità.
Kethmer si alzò, il corpo che si sentiva leggero, quasi etereo. Ogni muscolo sembrava vibrare di energia, e per un momento il fischio nelle sue orecchie si alzò. Era il preludio alla calma che cercava.
Senza aspettare ulteriori istruzioni, si inoltrò nei campi, i suoi piedi che affondavano leggermente nella terra morbida. Il sole alto bruciava la sua pelle, ma il calore non lo distraeva. I fischi diminuivano a ogni passo, un assaggio della pace che sapeva sarebbe arrivata quando l’adrenalina avrebbe preso il sopravvento.
Dietro di lui, i suoi “alleati” lo seguivano a distanza. La loro presenza era un’ombra fastidiosa, ma Kethmer si concentrò sul suo obiettivo: la corte, e i briganti che vi si annidavano. Non aveva bisogno della sua spada. Non ne aveva bisogno ora. Le sue mani sarebbero state sufficienti.
Mentre si avvicinava alla corte, le voci dei briganti iniziarono a diventare udibili, un mormorio che cresceva man mano che si avvicinava. Una figura apparve al cancello, un uomo armato di lancia che scrutava i campi. Kethmer rallentò, il respiro che si faceva più profondo. L’attesa era finita.
Mentre Kethmer si inoltrava nei campi, le due Torri rimaste al casolare si osservavano in silenzio per un momento, prima che il nano rompesse la quiete.
“Perché?” chiese, la voce bassa ma carica di tensione. “Perché tenete un tale abominio tra di noi? Lo sai quanto destabilizza le pedine normali. E questo elfo… non è normale. Non sembra nemmeno umano.”
L’orco lo guardò, il suo ghigno deformato da una nota di divertimento. “Perché sarebbe stato stupido seppellire un’arma così affilata invece di imparare ad usarla,” rispose con un tono calmo ma tagliente. “Lo so che non piace nemmeno a te. Ma quando lo vedrai in azione, capirai. Lui non è una pedina. È qualcosa di più.”
Il nano incrociò le braccia, scrutando l’orizzonte come se cercasse di intravedere cosa stesse accadendo. “Più, dici? Io vedo solo caos. E il caos non è utile.”
“Il caos,” replicò la Torre di Kethmer, con un sorriso sinistro, “è utile quando puoi dirigerlo.”
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Nei campi, il caos aveva già preso forma.
Con movimenti rapidi e felini, Kethmer balzò fuori dall’erba alta come un’ombra che si materializzava dal nulla. La guardia al cancello, un uomo robusto armato di lancia, non ebbe nemmeno il tempo di reagire. Kethmer gli assestò un calcio devastante allo sterno, il suono delle ossa che si spezzavano come rami secchi riempiendo l’aria.
La guardia volò indietro con una forza disumana, sfondando la palizzata di legno dietro di lui. Il corpo senza vita si accasciò tra le schegge, gli occhi spalancati in un’espressione di incredulità. Un colpo solo.
Kethmer non si fermò. Il fischio nelle sue orecchie si attenuò per un istante, quel breve momento di pace che gli dava una sensazione estatica, quasi divina. Ma sapeva che sarebbe tornato. Sempre tornava. E così corse avanti, bramoso di trovare altre vittime per allungare quella tregua.
Entrò nella corte come un uragano, senza esitazione. I briganti, colti di sorpresa, cercarono di organizzarsi, ma Kethmer era troppo veloce. Con un salto, colpì un uomo al petto con entrambi i piedi, facendolo crollare a terra con un grido soffocato, eseguendo una capriola all’indietro e atterrando stabile. Girandosi, afferrò un altro brigante per il braccio, torcendolo con una forza tale che l’arto si spezzò in un angolo innaturale prima che Kethmer gli schiacciasse la gola con una presa brutale.
Era un massacro.
Le sue mani si muovevano con una precisione letale, ogni colpo un’esplosione di violenza. I briganti urlavano, cercavano di scappare o di difendersi, ma era inutile. Kethmer li cacciava come prede, le sue mosse guidate non solo dalla necessità, ma da una sorta di estasi primordiale. Ogni morte faceva diminuire il fischio, anche solo per pochi secondi, e quei momenti di silenzio lo riempivano di una gioia disturbante.
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Le due pedine, l’umano e l’orco, arrivarono poco dopo, avanzando lentamente. I loro passi erano incerti mentre osservavano ciò che rimaneva della corte. Corpi senza vita erano sparsi ovunque, i segni di una brutalità che li lasciò pallidi. Le loro armi, ancora intatte nelle loro mani, sembravano inutili in quel teatro di sangue.
Dal solaio di un casolare, un brigante gridò qualcosa in preda al panico. Ma prima che potesse fare altro, Kethmer lo raggiunse con un salto. Il colpo lo colpì dritto al viso, spezzandolo con un suono nauseante. Il corpo del brigante volò giù dal solaio, atterrando con un tonfo sordo nel cortile.
Le due pedine rimasero immobili, fissando la scena con occhi sbarrati. Non era un combattente. Era un mostro.
Kethmer saltò giù sul cadavere dell’uomo, spappolandolo. Si fermò per un momento, il respiro pesante, il viso macchiato di sangue che non era suo. Gli occhi si posarono sui due “alleati” e videro solo paura. Il fischio era svanito di nuovo. E per qualche istante, era finalmente libero.
Kethmer rimase immobile al centro del massacro che aveva appena compiuto, il respiro affannato, le mani sporche di sangue. Per qualche istante, il fischio era svanito, lasciandogli una sensazione di calma e appagamento che quasi lo faceva sentire vivo. Ma come una marea inevitabile, il suono tornò, stridulo e opprimente, crescendo sempre più forte nella sua mente.
Guardò le due pedine che lo fissavano ancora scioccate, i loro occhi pieni di paura. L'umano e l'orco erano immobili, le armi ancora strette nelle mani, ma il loro terrore era evidente. Percepivano qualcosa in lui, qualcosa di oscuro che si agitava sotto la superficie.
Kethmer strinse i pugni, il fischio che raggiungeva un’intensità insopportabile. Devo farlo smettere. Il pensiero si insinuò nella sua mente, subdolo e inevitabile. Il suo sguardo si posò sulle pedine, e per un attimo sentì l’impulso di attaccare, di vederle cadere come gli altri, di assaporare ancora una volta il silenzio.
I due lo percepirono. Come animali che sentono l’approssimarsi di un predatore, si misero in guardia, sollevando i loro scudi e posizionandosi in modo difensivo. L’orco serrò la mascella, e l’umano fece un passo indietro, il martello pronto a colpire.
“Calmati,” disse l’umano, ma la sua voce tradiva un tremito. “Non c’è bisogno di fare questo.”
Kethmer non rispose. Il fischio era tutto ciò che poteva sentire, un’onda che minacciava di travolgerlo. Forse sarebbe finito se…
“Abbastanza!” La voce del nano risuonò come un colpo secco, interrompendo la tensione. Le due Torri erano arrivate, osservando la scena con attenzione. Il nano avanzò con passi pesanti, il suo volto duro ma soddisfatto. “Avete eseguito il lavoro perfettamente,” dichiarò, ignorando l’atmosfera carica di tensione. “Un massacro pulito, come doveva essere.”
La Torre di Kethmer, l’orco, lo fissò con uno sguardo analitico prima di avanzare verso di lui. “Vieni con me,” disse con voce bassa, afferrandolo per un braccio e trascinandolo senza alcuno sforzo. Kethmer non oppose resistenza; il fischio era troppo forte per pensare chiaramente.
Le altre pedine si allontanarono, ancora scosse, mentre le Torri li osservavano con attenzione. Kethmer fu portato via, la stretta dell’orco che sembrava una morsa d’acciaio, ma stranamente protettiva.
Quando furono abbastanza lontani, l’orco si fermò e si girò verso di lui, fissandolo con occhi duri. “Calmati,” disse, e prima che Kethmer potesse rispondere, gli assestò uno schiaffo sonoro sul volto.
Il colpo lo fece vacillare, ma ebbe l’effetto desiderato. Il fischio diminuì leggermente, abbastanza da permettere a Kethmer di respirare. L’orco gli diede un altro schiaffo, meno forte, ma comunque deciso. “Ascoltami,” disse, il tono severo. “Non sei una bestia. Sei una lama. E una lama non si abbatte senza uno scopo.”
Kethmer lo fissò, il respiro pesante, il fischio che continuava a pulsare nelle sue orecchie. “Non riesco a controllarlo,” mormorò, la voce incrinata. “Non riesco…”
L’orco lo afferrò per le spalle, scuotendolo leggermente. “Imparerai,” disse, con una determinazione che sembrava voler perforare il caos dentro di lui. “Imparerai a domare il fischio, o sarà lui a domare te. Ma per ora, Pedina, ricordati una cosa: tu sei mio. E finché sarai sotto di me, non perderai il controllo. Capito?”
Kethmer annuì lentamente, il fischio che si attenuava, lasciando spazio a un silenzio carico di tensione. Non era pace, ma era abbastanza. Per ora.
Il viaggio di ritorno fu soffocato da un silenzio inquieto, spezzato solo dal rumore monotono delle ruote del carro sul terreno. Gli sguardi degli altri tre—l’umano, l’orco, e la Torre del nano—erano carichi di rancore e diffidenza, rivolti verso Kethmer come se fosse una minaccia incontrollabile. Persino l’orco della squadra di Kethmer sembrava immerso nei suoi pensieri, scrutando il vuoto con espressione impenetrabile.
Kethmer rimase seduto, le mani sporche ancora di sangue secco, il fischio nelle orecchie che continuava a pulsare, ma ora più distante, come un’eco. La pace momentanea della battaglia era svanita, lasciandolo solo con i suoi dubbi e la consapevolezza che, ancora una volta, era diverso. Isolato. Una lama affilata che nessuno voleva impugnare.
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Arrivati alla villa, il gruppo si separò in fretta. Le due pedine del nano scomparvero senza una parola, seguite dalla loro Torre, che lanciò un ultimo sguardo di disapprovazione verso Kethmer e la sua Torre prima di andarsene. L’orco, invece, rimase, guidando Kethmer verso uno degli spazi aperti nel cortile.
“Fermo,” disse l’orco, voltandosi verso di lui con le braccia incrociate. Il tono era duro, ma non privo di un’ombra di comprensione. “Parliamo del contratto.”
Kethmer annuì lentamente, gli occhi fissi sul pavimento, aspettandosi il solito rimprovero.
“Il contratto è stato completato,” iniziò l’orco, la voce calma ma tagliente. “Pulito, efficace, brutale. Non posso dirti nulla su quello. Sei stato perfetto.”
Kethmer sollevò lo sguardo, sorpreso da quelle parole. Non si aspettava un riconoscimento, ma sapeva che qualcosa doveva ancora arrivare.
“Il test sul lavoro di squadra, invece,” continuò la Torre, con un ghigno amaro, “beh, quello è stato un disastro. E non sto parlando solo di te.”
L’orco alzò un dito, puntandolo verso il carro ormai vuoto. “Quei tre non valgono nulla. Il nano può giocare a fare il moralista quanto vuole, ma le sue pedine sono pavide, lente, e inutili. L’umano e l’orco hanno più paura di te che dei briganti, e il nano stesso non capisce cosa significhi davvero guidare.”
Fece una pausa, poi fissò Kethmer con occhi duri. “Ma anche tu, Pedina, non sei esente da colpe. Hai agito da solo, senza nemmeno provare a collaborare. Perché? Non ti fidi? O pensi di non aver bisogno di nessuno?”
Kethmer strinse i pugni, il fischio che tornava a pulsare leggermente. “Non mi fido,” ammise, la voce bassa ma decisa. “Non mi servivano. E loro non volevano aiutarmi.”
L’orco annuì, il ghigno che si trasformò in un sorriso storto. “Forse hai ragione. Forse non ti servivano. Ma ricorda questo, Pedina: i Traduttori del Silenzio non funzionano come una singola lama. Siamo un esercito, e ogni pezzo ha un ruolo. Se non impari a lavorare con gli altri, sarai sempre solo. Anche la lama più affilata si spezza se non è supportata.”
Fece una pausa, scrutandolo con attenzione. “Ma forse,” aggiunse, con un tono quasi sarcastico, “forse il problema non è tuo. Forse non sei fatto per lavorare con idioti.”
Kethmer si concesse un mezzo sorriso, ma non rispose. L’orco scrollò le spalle, facendo un passo indietro.
“Riposa,” disse, con un tono meno severo. “Domani è un altro giorno. E ricorda, Pedina: una lama come te può tagliare in ogni direzione. Sta a te decidere dove colpire.”
Kethmer annuì, le parole dell’orco che rimbombavano nella sua mente mentre si dirigeva verso la sua stanza. Il fischio era tornato, ma c’era qualcosa di diverso. Forse, per la prima volta, sentiva che poteva decidere di ascoltarlo o di ignorarlo. Forse, stava iniziando a capire come controllarlo.