I giorni passavano in una monotona routine di allenamenti, il corpo di Kethmer che si rafforzava ulteriormente e la Ōshinku che ormai danzava con lui come se fosse un’estensione della sua volontà. Tuttavia, il fischio nelle orecchie non lo lasciava mai completamente. Alcuni giorni era più tenue, altri una cacofonia insopportabile, ma non era mai del tutto assente.
Una mattina, durante un esercizio particolarmente intenso, la Torre lo chiamò con un cenno brusco. “Vieni, Pedina,” grugnì, lasciando cadere una pesante mazza da allenamento al suolo. “Devo parlarti.”
Kethmer si avvicinò, il sudore che gli colava lungo la schiena, il respiro pesante. L’orco lo fissò con un’espressione seria, ma i suoi occhi tradivano una leggera nota di sarcasmo.
“Devo lasciare la città per un po’,” disse, asciutto. “Un contratto grosso, roba delicata. Non sarò qui per seguirti nei prossimi giorni.”
Kethmer lo fissò, un misto di curiosità e preoccupazione. “E allora? Chi mi allenerà?” chiese.
L’orco sorrise, un ghigno tagliente che Kethmer conosceva bene. “Ah, non preoccuparti. Non resterai con le mani in mano. Ti affiderò a una figura diversa. Qualcuno che potrà insegnarti cose che io non posso.”
Kethmer alzò un sopracciglio. “Chi?”
“Uno degli alfieri,” rispose l’orco, facendo una pausa per osservare la reazione dell’elfo. “Sai, quegli strani bastardi tattici e intellettuali. Sembrano deboli, ma se non stai attento, ti avvelenano il caffè mentre non guardi.”
Kethmer rimase in silenzio, cercando di processare l’informazione. Gli alfieri erano una figura diversa rispetto alle Torri, più subdola, meno diretta. Non erano massacratori, ma calcolatori, manipolatori, arcanisti. La loro forza non era fisica, ma mentale e magica.
“Te lo ricordi lo gnomo della Chiesa?” continuò l’orco, incrociando le braccia. “Quello sarà il tuo nuovo maestro per un po’. Vedrai, vi divertirete.”
Kethmer rabbrividì leggermente. Lo gnomo gli era rimasto impresso: una figura piccola ma inquietante, avvolta in un’aura di mistero. Non gli ispirava fiducia.
“Oh, e un’altra cosa,” aggiunse la Torre, il suo sorriso che si allargava. “Lui ha una pedina. La Mesvet giovane che ti ha quasi fatto a pezzi con gli incantesimi necrotici nell’arena. Ti ricordi di lei?”
Kethmer annuì lentamente, le immagini del massacro nell’arena che gli tornavano alla mente. L’apatia fredda di quella Mesvet, la precisione letale con cui lanciava i suoi incantesimi, il modo in cui contava le vittime senza emozione.
“Bene,” concluse l’orco. “Sono sicuro che andrete d’accordo. Lei è una pedina promettente, ma guarda il lato positivo: almeno è meno fastidiosa degli altri idioti che hai incontrato.”
Kethmer non era sicuro che fosse un lato positivo.
“Gli alfieri,” continuò la Torre, tornando serio, “non combattono come noi. Non sono incursori, né baluardi, né massacratori. Loro giocano a un altro gioco. Voglio che impari da loro. Potrebbe servirti un giorno.”
L’orco gli diede una pacca sulla spalla, abbastanza forte da fargli barcollare leggermente. “Preparati, Pedina. Il tuo mondo sta per diventare ancora più strano.”
E con quelle parole, lo lasciò, il suo ghigno che lo accompagnava mentre si allontanava verso l’uscita. Kethmer non sapeva se sentirsi eccitato o spaventato.
Il giorno seguente, Kethmer fu prelevato dallo gnomo, il nuovo "maestro", che lo attendeva nel corridoio. Era un uomo minuto, con vesti lunghe e consunte, e una barba che sembrava più curata del resto del suo aspetto. Parlava a bassa voce, masticando le parole in un modo che rendeva difficile comprendere tutto ciò che diceva. “Seguimi, Pedina,” mormorò, senza aggiungere altro.
Kethmer lo seguì in silenzio, attraversando corridoi che non aveva mai percorso prima. Alla fine arrivarono a una biblioteca situata nei piani più alti della villa, un luogo vasto e silenzioso, dove ogni passo sembrava risuonare come un colpo. L’aria era intrisa dell’odore di pergamene antiche e inchiostro fresco.
Al centro della biblioteca, un grande tavolo rotondo ospitava tre figure: El, che sembrava divertirsi a importunare un’altra pedina accanto a lei lanciandogli gocce di inchiostro sul viso; un goblin che sfogliava un libro con aria concentrata; e un altro gnomo, più anziano, che inveiva contro la mesvet.
Non appena Kethmer entrò, la Mesvet lo notò e gli si avvicinò con un entusiasmo freddo. “Tu sei quello che non muore, vero?” esclamò, stringendogli la mano con forza. “Io sono El! Piacere! Il mio sogno è diventare un Lich!”
Prima che potesse continuare, lo sguardo fulminante dell’alfiere la bloccò. La ragazza si corresse immediatamente, abbassando lo sguardo. “Volevo dire… sono una pedina,” aggiunse con un tono di falsa modestia.
Lo gnomo maestro annuì con aria stanca, come se fosse abituato alle stranezze della ragazza. “Sedetevi tutti,” disse, dirigendosi verso il tavolo. “Abbiamo molto lavoro da fare oggi.”
Kethmer prese posto accanto a El, che sembrava ancora curiosa nei suoi confronti, mentre l’alfiere si accomodava a capotavola. “Oggi voglio che ognuno di voi mi racconti cosa sta studiando e cosa ha imparato finora,” ordinò. “Iniziamo con te,” disse, indicando lo gnomo anziano.
Lo gnomo si schiarì la gola, accarezzandosi la barba con un gesto teatrale. “Sto studiando la storia dei Traduttori del Silenzio,” iniziò, con un tono che sembrava voler impressionare tutti i presenti. “Fatti storici, la loro evoluzione nel tempo, e soprattutto i loro strumenti: i veleni più letali, i preparati alchemici più ingegnosi, gli esplosivi artigianali e le armi uniche che sto imparando a fabbricare.”
Kethmer ascoltava con attenzione, ma la sua concentrazione era distratta dalla Mesvet, che continuava a importunare lo gnomo lanciandogli piccole gocce di inchiostro in faccia. Ogni volta che una goccia lo colpiva, lo gnomo si fermava e la puliva con fastidio, mentre El nascondeva un sorriso soddisfatto.
“Questo…” riprese lo gnomo, accarezzandosi di nuovo la barba con aria offesa, “è ciò su cui mi sto concentrando. Le basi della nostra conoscenza sono la chiave per comprendere il futuro. E se certi individui”—gettò un’occhiata accusatoria a El—“fossero meno infantili, potremmo fare progressi ancora più significativi.”
El si limitò a sbuffare, fissando lo gnomo con un’espressione apatica, prima di voltarsi di nuovo verso Kethmer. “E tu?” gli sussurrò, mentre l’alfiere si girava verso il goblin per la prossima risposta. “Sei già morto, vero? Com’è stato?”
Kethmer rimase in silenzio, cercando di ignorare la domanda, ma non poteva fare a meno di chiedersi come fosse finito in mezzo a quel gruppo. Era un mondo completamente diverso da quello della Torre. Un mondo di menti affilate quanto le lame.
L’alfiere si sistemò meglio sulla sedia, la sua voce bassa ma chiara come un rasoio mentre cominciava a parlare dopo aver interrogato il goblin ed El. “Oggi parleremo di trasmutazione,” annunciò, ignorando completamente le dinamiche infantili tra la mesvet e lo gnomo più anziano. “Non è solo un’arte arcana, ma una delle più grandi rivoluzioni della nostra epoca, resa comune quanto la chirurgia nei ceti più alti della società.”
Le sue parole fluirono come un fiume, ogni frase carica di significato e di un certo orgoglio. “Pensateci: un ricco mercante può pagare per una pelle più liscia e giovane, un nobile può avere occhi che vedono nell’oscurità. Ma noi, i Traduttori, vediamo oltre il superfluo. La trasmutazione non è solo estetica. È potere.”
Il goblin alzò la testa dal suo libro, interessato, mentre El smise per un attimo di lanciare inchiostro per ascoltare.
“Immaginate una Torre,” continuò l’alfiere, “con tramutata la propria pelle in scaglie dure come l’acciaio, rendendosi inarrestabile. Oppure un Cavallo che trasforma i muscoli delle gambe per diventare rapido come un fulmine. O ancora un Alfiere come me, che manipola la propria fisiologia per emettere più fumo con ogni incantesimo.”
Il suo sguardo si posò su Kethmer. “E poi ci sono i casi come il tuo. Creati dalla natura o, chissà, da qualche altra forza. Tu sei già un’anomalia. Il tuo corpo si rigenera. E ora sei qui, con noi, a imparare. Ma dimmi,” disse, con un sorriso sottile, “che cosa sai della magia che hai usato nella chiesa?”
Kethmer si irrigidì. Sentiva gli occhi di tutti su di lui. Non aveva mai pensato troppo a quel momento nella chiesa. Aveva agito d’istinto, spinto dalla paura e dalla disperazione. Non sapeva nemmeno che nome dare a quella forza che aveva richiamato.
“Non lo so,” ammise infine, il tono quasi irritato. “Non so come funziona, né come l’ho fatto. È un trucchetto che ho imparato per rubare da giovane.”
L’alfiere lo osservò per un lungo momento, poi annuì lentamente, come se si aspettasse quella risposta. “Ignoranza. Ma non è una colpa, è un’opportunità,” disse, con un tono che mescolava severità e comprensione. “Quella magia che hai usato, Pedina, appartiene alla scuola di gravitomanzia. Un’arte antica e potente, che manipola il peso, il movimento e le forze stesse che governano il mondo.”
Si alzò dalla sedia e cominciò a camminare intorno al tavolo, il suo sguardo fisso su Kethmer. “Un gravitomante può fare molte cose: schiacciare un nemico sotto il peso di un’intera montagna invisibile, sollevare un oggetto massiccio con un semplice gesto. È una scuola che richiede precisione, concentrazione, e una volontà ferrea.”
Si fermò davanti a Kethmer, inclinando leggermente la testa. “La domanda, Pedina, è: vuoi imparare? Oppure continuerai a lasciarti governare da qualcosa che non comprendi?”
Il silenzio calò sulla biblioteca, rotto solo dal fruscio delle pergamene e dai respiri contenuti degli altri. Kethmer fissò l’alfiere, sentendo il fischio nelle orecchie attenuarsi leggermente. Non era sicuro di cosa rispondere, ma una parte di lui sapeva che quella era una domanda che avrebbe cambiato tutto.
El alzò la mano, il movimento rapido che attirò l’attenzione di tutti. “Faremo pratica anche oggi?” chiese, il tono privo di emozione ma con una scintilla di curiosità nascosta sotto la superficie.
L’alfiere annuì, un sorriso sottile che si accennava sulle sue labbra. “Sì. Nel pomeriggio, ci sarà spazio per la pratica. Ma prima dobbiamo continuare. Trasmutazione,” disse, facendo scorrere il suo sguardo su ognuno di loro, “non si applica solo agli esseri viventi, ma anche agli oggetti. E con gli oggetti possiamo permetterci di sbagliare. El, vuoi fare un esempio pratico?”
La Mesvet si alzò senza protestare, avvicinandosi al tavolo. L’alfiere prese un libro dalla pila vicina, una vecchia rilegatura dall’aria malconcia, e glielo passò.
“Trasforma questo,” ordinò, indicando il libro con un gesto leggero. “Amplialo. Sottile, fragile. Mostraci come puoi ridisporre la massa.”
El si concentrò, le dita che si muovevano in un gesto complesso mentre il fumo usciva lentamente dal suo indice, avvolgendo il libro. Lentamente, la rilegatura e le pagine iniziarono a mutare: la copertina si allungò, divenne sottile e quasi trasparente, le pagine si srotolarono, diventando più fragili al tatto. Quando terminò, l’alfiere prese il libro, mostrando il risultato al gruppo.
“Vedete?” disse, girandolo tra le mani con cura. “Riducendo la densità e aumentando la superficie, otteniamo un oggetto più grande, ma anche più delicato. Una disposizione della massa che richiede precisione.”
Si voltò di nuovo verso El. “Ora proviamo l’opposto,” disse, restituendole il libro. “Compattalo. Fai qualcosa di piccolo, robusto, e resistente.”
El non rispose, ma il fumo ricominciò a danzare intorno alle sue dita. Questa volta, il libro si accorciò e si ispessì, la copertina diventò dura come legno, le pagine ruvide e dense. Quando ebbe finito, l’alfiere esaminò il libricino con attenzione.
“Molto bene,” disse, annuendo con approvazione. “La disposizione tecnica della massa è eccellente. Ogni dettaglio ben curato.” Ma El rimase impassibile, la sua espressione apatica che tradiva ogni tentativo di elogio.
L’alfiere posò il libricino sul tavolo e si rivolse di nuovo al gruppo. “Ovviamente, fare esperimenti sugli oggetti è semplice. Un errore su un libro non ha gravi conseguenze. Ma se dovessimo applicare la trasmutazione su un organismo vivente, anche il più piccolo errore potrebbe causare danni irreparabili. Perfino la morte.”
Il tono si fece più cupo mentre cominciava a elencare alcune delle trasmutazioni più classiche: l’irrobustimento delle ossa, l’aumento della densità muscolare, la trasformazione dei tessuti cutanei in materiali più resistenti. Kethmer ascoltava in silenzio, assorbendo ogni parola.
Si ritrovò a studiare lo gnomo più attentamente. Dietro quella figura minuta e apparentemente fragile, Kethmer iniziava a riconoscere un’intelligenza vasta e un sapere profondo. L’alfiere non era solo un arcanista: era un osservatore, un calcolatore, un manipolatore. Ogni gesto e parola sembravano misurati con cura, ogni frase una finestra su una mente incredibilmente consapevole.
Mentre il discorso continuava, Kethmer notò qualcosa di più inquietante: lo gnomo lo stava osservando. Non in modo palese, ma c’era un’attenzione costante nei suoi confronti, uno sguardo che lo seguiva, anche quando sembrava impegnato a parlare con gli altri. Era come se l’alfiere stesse aspettando qualcosa da lui, un segno, una reazione.
Era da quando lo aveva incontrato che si sentiva osservato, e ora se ne rendeva conto pienamente.
Uno schiavo arrivò al mezzodì con passo rapido, il collare al collo che emetteva un lieve tintinnio ad ogni movimento. Sul vassoio c’erano alcune pietanze fredde, sistemate in modo ordinato ma privo di attenzione o cura. Non c’era alcuna parola di cortesia, alcun cenno: lo schiavo posò il vassoio e si ritirò, lasciando i presenti immersi nel silenzio della biblioteca.
Il goblin continuò a leggere i suoi appunti, mangiando lentamente senza mai alzare lo sguardo. Era concentrato, come se il resto del mondo non esistesse. Kethmer rimase immobile per qualche istante, fissando il cibo che, ormai, non gli diceva più nulla. Era solo un obbligo, non un piacere.
Fu El a rompere il silenzio. Si avvicinò a lui con il solito passo rapido e irrequieto, la curiosità che brillava nei suoi occhi freddi. “Tu,” disse, indicandolo con l’indice macchiato d’inchiostro. “Perché non sei morto? Te lo ricordi? Hai provato qualcosa di strano quando… beh, quando sei tornato?”
Kethmer esitò. Non gli piaceva parlare di se stesso, e soprattutto non con una figura come El, la cui personalità lo metteva costantemente a disagio. Ma c’era qualcosa nel modo in cui lo fissava, una pressione sottile che lo spinse a rispondere.
“Il fischio,” disse infine, la voce rauca. “Non so cosa sia, ma è lì. Sempre. E l’insonnia. Non dormo da… mesi, ormai. E il cibo…” fece un gesto verso il vassoio, scuotendo la testa. “Non ha più sapore. Niente ne ha.”
El lo osservò attentamente, inclinando leggermente la testa come farebbe un bambino davanti a un giocattolo rotto. “Come i non morti,” disse, con una nota di fascino nella voce. “A parte per il fischio, quello non lo capisco. Come funziona?”
Kethmer si strinse nelle spalle, cercando di spiegare. “Non lo so. È sempre lì. Aumenta e diminuisce. Quando sono eccitato, in battaglia o uccido.” la sua voce si abbassò leggermente, gli occhi che si allontanarono per un momento.
“Quando il fischio sparisce, anche solo per un secondo, è come… come se mi sentissi libero.”
La Mesvet si appoggiò al tavolo, il viso impassibile ma gli occhi che lo scrutavano con un’intensità glaciale. “Interessante,” mormorò. “Io non lo sento, ma immagino che dev’essere come avere qualcuno che ti sussurra continuamente nell’orecchio. Fastidioso.”
Poi si lasciò cadere su una sedia accanto a lui, sbuffando. “Non è giusto, comunque,” disse, cambiando improvvisamente argomento. “Tu hai già avuto due contratti a quanto ho sentito. Due! Io neanche uno. E sono mesi che mi fanno marcire qui con i libri e gli esercizi.”
Kethmer la guardò di sfuggita, leggermente infastidito dalla sua lamentela. “Forse non sei pronta.”
“Pronta?” ripeté lei, con un sorriso storto che si trasformò rapidamente in un ghigno. “Oh, io sono pronta. Ti ricordi come ti ho ridotto nell’arena? Io non sbaglio. Sono perfetta. Loro semplicemente non lo capiscono.”
“Perfetta, eh?” disse lui con un tono sarcastico.
“Sì,” ribatté lei, incrociando le braccia come una bambina che protesta contro un’ingiustizia immaginaria. “E tu, invece, sei solo un ‘tizio che non muore.’”
Prima che Kethmer potesse rispondere, l’alfiere alzò lo sguardo dal libro che stava sfogliando. Li osservava entrambi con un’espressione calma ma penetrante, come se stesse studiando ogni parola e ogni gesto. Era chiaro che non si fosse perso nemmeno un momento della conversazione.
El sembrava ignorare del tutto la sua presenza, ma Kethmer no. Sentiva il peso dello sguardo dello gnomo su di lui, la consapevolezza che ogni dettaglio veniva registrato, analizzato, giudicato.
Non era una conversazione casuale. Era un altro test. E lo gnomo stava aspettando qualcosa.
Dopo il pasto, l’alfiere li condusse attraverso un lungo corridoio, il silenzio che li avvolgeva come un manto. Kethmer, El, il goblin e lo gnomo anziano camminavano in fila, ciascuno perso nei propri pensieri. Giunsero infine in una stanza spoglia, completamente isolata dalle altre sale d’allenamento. Le pareti lisce, fatte di un marmo bianco immacolato, riflettevano la luce di lampade incastonate nel soffitto, creando un’illuminazione fredda e innaturale. Non c’erano finestre, né arredi, solo spazio vuoto.
L’alfiere entrò per ultimo, chiudendo la pesante porta dietro di sé con un tonfo. “Esercitatevi,” disse, il tono tranquillo ma autoritario. Si sedette in un angolo della stanza, il tomo sempre presente tra le mani, come se il caos che stava per scatenare fosse un’occupazione di secondo piano.
Prima, però, alzò un dito e lo fece oscillare lentamente nell’aria. Dal dito cominciò a fluire una sottile nuvola di fumo poco denso che si espanse rapidamente, circondandoli tutti. Kethmer guardò il fumo avvolgerlo, la consistenza impalpabile che non lo soffocava ma sembrava insinuarsi sotto la sua pelle. Un istante dopo, una leggera aura dorata cominciò a emergere intorno al suo corpo.
“Armature magiche,” mormorò El, osservando la stessa aura che ora avvolgeva anche lei, il goblin e lo gnomo anziano.
L’alfiere continuò, la sua attenzione concentrata. Le parole che pronunciava erano basse, velate, come un sussurro che sembrava riempire lo spazio. Con ogni parola, altro fumo si accumulava in un angolo della stanza, diventando sempre più denso. Alla fine, formò una sfera grande quasi quanto un uomo adulto, pulsante di una luce innaturale.
Kethmer fissò la sfera con occhi stretti, il suo corpo teso. Sapeva che non era una semplice dimostrazione. Questo era un test.
L’alfiere terminò il suo incanto con un’ultima parola che risuonò nella stanza come un rintocco lontano. La sfera si dissolse in un lampo, rilasciando un’onda di energia che fece tremare lievemente il pavimento. Quando il fumo svanì, quattro figure emersero dall’ombra.
Lupi. Ma non lupi normali. Le creature erano più grandi di qualsiasi animale che Kethmer avesse mai visto, con occhi che brillavano di una luce innaturale e pellicce nere come la pece. I loro muscoli si tendevano sotto la pelle, le fauci scoperte che mostravano zanne acuminate e innaturali. Emisero un ringhio basso, profondo, che riecheggiò nelle pareti di marmo, facendo vibrare l’aria.
“Preparatevi,” disse l’alfiere con calma, senza nemmeno alzare lo sguardo dal suo libro.
I lupi si mossero, le zampe che scivolavano sul pavimento con movimenti fluidi e predatori. Kethmer strinse i pugni, il cuore che batteva forte nel petto. Il fischio nelle orecchie si alzò all’istante, un segnale che l’adrenalina stava prendendo il controllo.
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El emise un lieve sorriso storto, un misto di eccitazione e apatia, mentre i suoi occhi freddi seguivano ogni movimento delle creature. Il goblin si sistemò meglio l’armatura magica, stringendo i denti, mentre lo gnomo anziano si mosse lateralmente, cominciando a mormorare parole arcane.
I lupi si fermarono per un istante, i loro occhi scintillanti fissi sul gruppo, come se stessero scegliendo chi attaccare per primo. Il momento si congelò, il silenzio nella stanza interrotto solo dai loro respiri profondi.
Poi attaccarono.
Quando il primo lupo avanzò con un ringhio minaccioso, Kethmer non esitò. Con un passo rapido e deciso, si lanciò in avanti, sorpassando gli altri e sferrando un pugno diretto contro il muso della bestia. Il colpo risuonò come un tuono nella stanza vuota, e il lupo, incapace di reagire, si dissolse immediatamente in una nuvola di fumo denso che si disperse nell’aria.
“Bene,” mormorò Kethmer, un leggero sorriso sul volto.
Ma la voce dell’alfiere ruppe il momento, carica di una calma irritata. “Pedina,” disse, alzando lo sguardo dal tomo, gli occhi che lo trapassavano come lame. “Sei qui per allenarti con la magia, non per attuare i tuoi metodi barbari. Impara o te ne vai.”
Il tono secco bastò per spezzare quel briciolo di compiacimento che Kethmer aveva provato. Era un avvertimento.
Gli altri lupi non lasciarono spazio a ulteriori riflessioni. Attaccarono simultaneamente, ognuno focalizzandosi su un bersaglio diverso.
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Lo gnomo anziano si mosse lateralmente con una sorprendente agilità, mormorando parole arcane sotto il respiro. Una figura illusoria apparve accanto a lui, una copia esatta del suo corpo, che si lanciò verso il lupo più vicino. La creatura, confusa dall’immagine, balzò verso l’illusione, solo per schiantarsi contro un muro dietro con un suono sordo. Lo gnomo sogghignò, ma si rimise subito in guardia, mantenendo l’attenzione sulla bestia stordita.
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Il goblin, nel frattempo, si trovava in una lotta costante per la sopravvivenza. Evitando con destrezza i balzi del lupo che lo inseguiva, scagliava dardi di fuoco e frecce di ghiaccio alle sue spalle. Ogni colpo rallentava la bestia, ma non la fermava del tutto. Correva in cerchio per evitare di essere morso, il respiro affannoso che riempiva la stanza.
“Dannazione!” gridò, schivando un altro attacco. “Questi cosi non si stancano mai?”
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El, invece, affrontava il suo avversario con una precisione glaciale. La sua apatia naturale sembrava dissolversi in un’ondata di concentrazione letale. Il lupo di fronte a lei si muoveva con agilità, ma ogni passo indietro era punito da un incantesimo necrotico. Il fumo oscuro che usciva dalle sue dita avvolgeva la creatura, che ringhiava e schivava, cercando di avvicinarsi senza successo.
Tuttavia, il lupo che inseguiva il goblin colse un’occasione. Cambiò direzione all’improvviso, ignorando il piccolo incantatore per balzare su El, che si trovava completamente esposta. L’istinto prese il sopravvento.
Kethmer, a pochi passi da lei, non pensò: agì. Alzò una mano e il fumo cominciò a fuoriuscire dal suo dito, creando una distorsione nella gravità. Non colpì il lupo direttamente, ma invertì la forza su di sé, attirando il salto della creatura verso il proprio corpo.
Il lupo lo colpì con violenza, scaraventandolo a terra. Sentì il peso della creatura schiacciarlo mentre i denti cercavano di affondare nella sua pelle. Ma l’aura dorata, l’armatura magica evocata dall’alfiere, lo proteggeva, bloccando ogni ferita.
Kethmer lottava sotto il peso del lupo, il respiro affannoso e il fischio nelle orecchie che aumentava. Doveva reagire.
Kethmer lottava sotto il peso dei lupi, il respiro spezzato, mentre le zanne della creatura cominciavano a strappare l’armatura magica che lo proteggeva. L’altro lupo, attirato dal suo movimento, si unì all’assalto, mordendogli una gamba con forza crescente. L’aura dorata iniziava a incrinarsi, frammenti di luce che si spezzavano come vetro sotto la pressione.
“Attiralo vicino agli altri!” urlò improvvisamente El, con una voce decisa che sovrastò i ringhi delle bestie. Si voltò verso lo gnomo anziano, puntando con un dito Kethmer. “Usa un’illusione! Portalo lì!”
Lo gnomo sbuffò, ma eseguì, evocando un’altra copia illusoria di sé stesso. La figura si mosse agilmente, attirando l’ultimo lupo verso Kethmer e gli altri. La creatura, confusa ma affamata, cadde nella trappola, inseguendo l’immagine fino a trovarsi nel punto esatto dove El voleva.
“El, ora che faccio?” gridò il goblin, visibilmente agitato. “Non sono pronto per questa roba!”
“Fallo!” urlò El con una freddezza che tradiva una sottile nota di sadismo. “Lancialo e basta! Non sbaglierai!”
Il goblin tremò per un attimo, ma alla fine obbedì. Dal suo dito si sollevò una bolla di fumo verdastro, che fluttuò per un istante prima di esplodere in una pozza di acido ribollente. L’impatto fu devastante: un’ondata di liquido corrosivo si sparse, avvolgendo i lupi e Kethmer in una morsa letale.
Due dei lupi caddero immediatamente, il loro corpo dissolto in una massa fumante. L’ultimo, sebbene gravemente ferito, riuscì a sopravvivere, tentando di fuggire. El, già pronta, scagliò un dardo necrotico con precisione mortale. L’incantesimo colpì la creatura al centro del cranio, facendola cadere inerte sul pavimento e facendola scomparire.
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Un attimo di silenzio calò nella stanza, rotto solo dal suono sordo delle bolle di acido che si spegnevano lentamente. Poi un rumore diverso si fece strada: uno sfrigolio, come carne viva che si rigenera.
Al centro della pozza corrosiva, Kethmer cominciò a rialzarsi, il suo corpo semi-dissolto che lentamente tornava a ricomporsi. L’armatura magica era scomparsa, così come i suoi vestiti, lasciandolo completamente nudo. Le sue membra si stiravano e si riformavano, la pelle che riemergeva sotto il sangue e l’acido come se fosse stata forgiata di nuovo.
El lo fissava, un sorriso sottile e ambiguo che tradiva la possibilità che tutto ciò fosse stato parte del suo piano sin dall’inizio. Lo guardava con interesse, senza vergogna o rimorso, mentre gli altri due—il goblin e lo gnomo—lo fissavano con espressioni che oscillavano tra il terrore e lo sgomento.
Kethmer alzò lo sguardo, i suoi occhi che si posavano su El per un istante prima di scivolare verso l’alfiere. Lo gnomo si alzò dal suo angolo, chiudendo il tomo con calma prima di sollevare una mano. Con un gesto semplice, evocò una tunica scura che si materializzò dal nulla.
“Prendi,” disse, porgendola a Kethmer senza emozione, come se tutto ciò fosse normale. “Copriti.”
Kethmer si avvicinò, ancora traballante, e afferrò la tunica, indossandola senza dire una parola. Il silenzio si prolungò, rotto solo dal respiro affannato del goblin, che sembrava ancora incapace di accettare ciò che aveva appena visto.
“El,” disse infine l’alfiere, il tono basso ma carico di significato. “Non tutti i tuoi piani devono concludersi con il massacro dei tuoi compagni.”
El sorrise di nuovo, alzando le spalle con noncuranza. “Ma lui non è morto, no? Direi che ha funzionato.”
Kethmer fissò El con un’espressione che oscillava tra il rancore e una strana curiosità. Chi era davvero quella Mesvet? E quanto si stava divertendo a testare i limiti della sua esistenza?
Kethmer osservava l’alfiere da un angolo della stanza, il corpo ancora dolorante ma rigenerato, le membra coperte dalla tunica scura. C’era qualcosa di profondamente diverso nell’approccio di quello gnomo rispetto alla Torre. La Torre era brutale, diretta, una forza inarrestabile che plasmava con colpi e pressione. L’alfiere, invece, era subdolo, come un ragno che tesse la sua tela con calma, calcolando ogni movimento.
Era evidente, secondo Kethmer, che l’alfiere agiva in maniera preventiva, preparando il terreno con precisione. Eppure, quella calma apparente nascondeva qualcosa di più oscuro. L’aveva lasciato alla mercé di El e del goblin di proposito. Voleva studiarlo, testare i suoi limiti, vedere cosa succedeva quando il caos si scatenava intorno a lui. E forse, proprio in quel momento, stava registrando ogni dettaglio del suo comportamento.
L’allenamento riprese, questa volta con un nuovo branco di lupi evocati dall’alfiere. Le bestie emersero dalla sfera di fumo con lo stesso ringhio minaccioso, e Kethmer si lanciò di nuovo nella lotta, cercando di bilanciare l’istinto brutale insegnatogli dalla Torre con le nuove lezioni sull’uso della magia. L’insofferenza verso le istruzioni dell’alfiere cresceva, ma doveva imparare. Non aveva scelta.
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Quella sera, tornato nelle sue stanze, Kethmer si lasciò cadere sul letto, il corpo stanco e la mente in subbuglio. Il fischio nelle orecchie era sempre presente, ma più tenue. Si portò una mano alla fronte, cercando di ordinare i pensieri. Nonostante gli allenamenti estenuanti, non riusciva a rilassarsi.
La sua mente vagò verso El, quella Mesvet che lo inquietava più di chiunque altro avesse incontrato finora. Era fredda, distante, sociopatica. Ma soprattutto, era diversa. Non solo come individuo, ma come rappresentante di un popolo che portava con sé un’aura di mistero e terrore.
La storia dei Mesvet era qualcosa che Kethmer conosceva fin da bambino, narrata come un monito nelle notti più cupe. Erano stati elfi, un tempo. Tribù che avevano voltato le spalle ai loro dèi, rinunciando alla fede. E per questo, erano stati puniti. Esiliati a Dolor, il luogo che ogni bambino temeva anche solo immaginare.
Dolor. Il nome stesso era un sussurro oscuro, sinonimo di dannazione. Si diceva che fosse abitato da tutte le creature più orribili del mondo: aberrazioni, demoni, non morti, mostri senza nome. Un luogo che nessuno visitava e da cui nessuno tornava.
Per almeno un centinaio d’anni, quegli elfi erano spariti, inghiottiti da quel regno infernale. Poi, improvvisamente, erano tornati. Non come vittime, ma come carnefici. Tribù intere comparvero di nuovo nel mondo, padroneggiando un’arte oscura che nessun altro popolo osava usare: la negromanzia.
I Mesvet schiacciarono gli altri elfi, piegarono il loro impero fino a raderlo al suolo. Le loro tecniche erano spaventose: usavano i cadaveri dei loro compagni e dei nemici come esercito. Intere battaglie venivano vinte senza che i Mesvet sollevassero un dito, i loro morti combattevano per loro. Gli elfi normali furono ridotti a una manciata di esuli, sparsi nel mondo, mentre i Mesvet si dichiaravano l’unica vera stirpe elfica.
Costruirono Nogod, una cittadella-impero dalle mura impenetrabili, dove la religione fu bandita. Era il primo stato laico della storia, un luogo governato solo dalla legge marziale e dalla scienza arcana. Da allora, i Mesvet si erano barricati lì, raramente interagendo con il resto del mondo.
C’era un detto comune che diceva: “Se vedi un Mesvet fuori da Nogod, c’è sempre un motivo.”
Quel pensiero fece rabbrividire Kethmer. El lo inquietava profondamente, molto più della Torre. Il suo comportamento apatico, il sorriso sottile che spesso gli rivolgeva, il modo in cui lo guardava come se fosse un esperimento vivente… tutto contribuiva a renderla un enigma minaccioso.
Si rigirò sul letto, cercando inutilmente di trovare conforto. Chi era davvero El? E, soprattutto, cosa ci faceva lì?
La notte calava su di lui come un mantello soffocante, ma Kethmer non dormiva. Non poteva dormire. Il fischio nelle orecchie era più intenso del solito, un crescendo dissonante che sembrava volerlo consumare dall’interno. Si girò sul letto per la centesima volta, frustrato e inquieto, quando un suono improvviso lo fece irrigidire.
Dalla porta provenivano lievi scricchiolii e il clic familiare di un lucchetto che veniva manipolato. Qualcuno stava cercando di entrare. Si mosse istintivamente, alzandosi in silenzio e nascondendosi dietro la porta, i muscoli tesi e il respiro trattenuto.
Gli scatti continuarono, lenti e precisi, fino a quando un ultimo clic ruppe il silenzio. La serratura cedette. Kethmer trattenne il fiato mentre la porta si apriva lentamente, lasciando entrare un’ombra indefinita. Non pensò. Scattò in avanti, colpendo con tutta la forza che aveva. Ma il corpo che colpì non c’era.
Attraversò l’ombra, cadendo nel vuoto. Era un’illusione. Un inganno.
Con un tonfo, Kethmer si rialzò, il fischio nelle orecchie che si amplificava nella confusione. Dietro di lui, una figura si mosse con agilità, chiudendo la porta alle sue spalle. “Fai meno casino,” disse una voce familiare, fredda e vagamente divertita.
Kethmer si girò di scatto, ancora in guardia, il cuore che batteva furiosamente. “Che diavolo fai qui?” ringhiò, stringendo i pugni.
La figura avanzò leggermente, la luce della luna che filtrava dalla finestra rivelò il viso pallido e inespressivo di El.
“Calmati,” disse, alzando una mano in segno di pace. “Sono qui per parlare.”
Kethmer rimase immobile, lo sguardo sospettoso. “Parlare? Con me? Dopo quello che hai fatto oggi?”
El inclinò leggermente la testa, il suo volto privo di emozione. “Sì, parlare. Non sempre bisogna giocare per ottenere qualcosa, sai?”
Kethmer non abbassò la guardia, ma lasciò che la curiosità prendesse il sopravvento. “Allora parla. Ma sappi che se provo a vedere un’altro incantesimo, giuro che stavolta non sbaglio il colpo.”
El si mosse con tranquillità, senza fretta, e si sedette sul letto di Kethmer, come se fosse nel posto più naturale al mondo. Il contrasto tra la sua presenza disinvolta e l’inquietudine di Kethmer era palpabile. Gli fece cenno di sedersi accanto a lei, ma lui rimase in piedi, immobile, osservandola con uno sguardo teso.
“Non ti senti solo soletto qua,” disse El, con un tono melodrammatico che sembrava più una recita che una vera preoccupazione. Fece un’espressione esageratamente triste, abbassando gli angoli della bocca e stringendo gli occhi in una finta malinconia. “Sempre chiuso in questa stanzetta, senza mai incontrare nessuno?”
“Sto bene,” rispose Kethmer secco, con un tono che non lasciava spazio a discussioni. Era una bugia, ma non era il caso di darle la soddisfazione di sapere la verità.
El non sembrò impressionata dalla risposta. Inclinò leggermente la testa, fissandolo con quel suo sguardo che oscillava sempre tra il sarcastico e il glaciale. Poi, senza alcun preavviso, cominciò a bombardarlo di domande apparentemente sciocche.
“Allora, qual è il tuo colore preferito?” chiese, intrecciando le dita e fissandolo con un sorriso che non raggiungeva gli occhi.
Kethmer la guardò come se avesse perso la testa. “Non lo so,” rispose freddamente.
“Ok, ok,” continuò lei, facendo un gesto teatrale con la mano, “allora dimmi: che tipo di donne ti piacciono? O forse ti piacciono gli uomini? C’è qualcuno che hai amato?”
Kethmer strinse i pugni, il fischio nelle orecchie che aumentava leggermente. “Non è affar tuo.”
El non si lasciò scoraggiare. “Va bene, allora qualcosa di più semplice: dove sei cresciuto? Qual è stata la tua infanzia? Fammi indovinare: triste e piena di sofferenza. No, aspetta, forse eri un ragazzino felice, saltellante e spensierato.”
Kethmer scosse la testa, l’esasperazione evidente sul suo volto. “Cosa vuoi da me? Perché sei qui?”
Lei lo guardò per un lungo momento, il sorriso svanito e la voce che si fece più seria. “Voglio conoscerti meglio,” disse, incrociando le braccia. “Voglio capire chi sei. Come sei arrivato ad essere quello che sei. Quello che non muore. Quello che combatte, che si rigenera, che sembra sempre sul punto di perdere la testa.”
Kethmer rimase in silenzio, fissandola. Le sue parole lo avevano colpito, anche se non lo avrebbe mai ammesso. Cosa voleva veramente quella Mesvet? Era pura curiosità, o c’era qualcosa di più?
El sospirò, appoggiandosi leggermente al muro. “Non ho intenzione di farti del male, se è quello che temi. E non voglio nulla da te, a parte risposte. Tu sei… interessante. E in un posto come questo, dove tutto è sempre così prevedibile, interessante è una cosa rara.”
Il fischio nelle orecchie di Kethmer divenne assordante, un rumore che sembrava voler squarciargli il cranio dall’interno. Barcollò leggermente, portandosi una mano alla testa, il respiro affannoso. Non capiva cosa stesse succedendo, ma era come se qualcosa dentro di lui stesse gridando per essere liberato.
El lo osservò attentamente, il suo sguardo che si fece ancora più analitico. Qualcosa in quel suo comportamento la incuriosì, un pezzo del puzzle che sembrava mancare ma che ora era quasi a portata di mano. Lentamente, con una grazia quasi meccanica, afferrò l’orlo della veste e lo alzò leggermente, appena abbastanza da scoprire la parte superiore delle sue cosce pallide.
La reazione di Kethmer fu immediata. Un gemito basso gli sfuggì dalle labbra, e il suo corpo ebbe un fremito involontario. Una fitta lo attraversò, dolorosa e travolgente, come se il fischio si fosse trasformato in una lama rovente.
El inclinò la testa, la curiosità nei suoi occhi che si accese come una scintilla. “Interessante,” mormorò, più a sé stessa che a lui. “Qualcosa dentro di te ti punisce… quando cerchi di ignorare i tuoi istinti più bassi. O, forse, ti spinge verso di essi.”
Kethmer sollevò lo sguardo verso di lei, i suoi occhi confusi e pieni di dolore. Era come se quelle parole avessero squarciato un velo nella sua mente, rivelando una verità che non voleva accettare. “Cosa stai facendo?” mormorò, la voce spezzata.
“Sto solo osservando,” rispose El con un sorriso enigmatico, lasciando ricadere la gonna con un gesto lento e deliberato. “E tu? Tu stai imparando qualcosa su te stesso, vero?”
Kethmer barcollò di nuovo, le mani che si chiudevano in pugni per la frustrazione. Ma El si avvicinò, con il suo solito passo calmo e controllato, mantenendo sempre una distanza sufficiente a non farlo sentire minacciato. “Qualcosa dentro di te,” continuò, il tono basso e misurato, “ti forza a soddisfare i tuoi desideri… o ti punisce con quel fischio infernale se non lo fai.”
Quelle parole colpirono Kethmer come una frustata. Era vero. Lo aveva sentito nella carne, ogni volta che il fischio aumentava. La sensazione insopportabile di repressione, seguita dal sollievo fugace quando cedeva a un impulso, qualunque esso fosse.
El sorrise, soddisfatta. “Ora lo capisco,” disse, la voce che si abbassò fino a diventare un sussurro. “Tu non sei così diverso dagli altri. Solo… più semplice. Più primordiale. Basta sapere dove colpire per ottenere quello che voglio da te.”
Kethmer alzò lo sguardo, ancora stordito ma consapevole del cambiamento nel suo corpo. “Stai giocando con me?” chiese, la rabbia che cominciava a prendere forma dietro la sua confusione.
El rise piano, il suono gelido come il vento d’inverno. “No, Pedina. Non sto giocando. Sto imparando. E ora che so come funzionano i tuoi meccanismi, possiamo iniziare a divertirci sul serio.”
El si avvicinò lentamente, con un’aria quasi affettuosa, ma i suoi occhi rimanevano freddi, calcolatori. La sua mano si allungò, sfiorando la guancia di Kethmer in un gesto delicato che gli fece provare un'ondata di dolore misto a estasi. Il fischio nelle sue orecchie si intensificò, divenendo insopportabile. Un’agonia che lo fece tremare, un desiderio che lo consumava.
El si ritrasse con un sorriso appena accennato e si voltò verso la porta. Kethmer, sentendo il tormento che cresceva in lui, agì d’istinto. Afferrò il suo polso, tentando di fermarla, ma la sua mano si chiuse intorno al vuoto. Un’ombra.
“Dannazione…” mormorò, il respiro affannoso. Si girò di scatto, confuso, per vedere El in piedi sul ciglio della porta, la sua figura definita e reale, ma i suoi occhi ancora gelidi, privi di emozione.
“Un’altra illusione,” sussurrò tra sé, il suo corpo ancora scosso dall’intensità del momento.
El lo guardò per un lungo istante, il suo volto impenetrabile. “Buona notte, Pedina,” disse con un tono quasi divertito, e poi chiuse la porta dietro di sé. Il rumore del lucchetto che scattava risuonò nella stanza vuota, un suono finale e definitivo che lo lasciò completamente solo.
Kethmer rimase immobile per un attimo, il fischio che continuava a riecheggiare nella sua mente, amplificato dall’assenza di ogni altra presenza. La stanza sembrava più piccola, più soffocante.
Si lasciò cadere a terra, il respiro corto, mentre lottava contro la confusione e la frustrazione. Era in preda alla follia. El gli aveva mostrato una verità su se stesso che non voleva affrontare, e lo aveva fatto in un modo che lo lasciava devastato e vulnerabile.
Le sue mani si chiusero a pugno, tremanti, e il suo sguardo si spostò verso la porta. “Maledetta…” sibilò, il fischio che lo spingeva verso il limite. Ma non c’era nulla che potesse fare. Non ora. Era solo. Solo con la sua follia.
Le giornate si susseguivano in una routine sempre più definita, scandite dalle lezioni dell’alfiere. Era un maestro impassibile, con una precisione quasi chirurgica nel trasmettere il sapere. Esponeva le dieci scuole di magia con un rigore intransigente, illustrando non solo la teoria ma anche le applicazioni pratiche, i rischi, e i limiti di ciascuna. Ogni parola sembrava scolpita nella pietra, ogni concetto un mattone da aggiungere alla costruzione della mente di Kethmer.
Ma ci fu un momento che spezzò il ritmo metodico delle lezioni: l’alfiere scoprì che Kethmer non sapeva scrivere. Il silenzio che seguì la rivelazione fu denso, quasi opprimente. L’alfiere lo fissò con uno sguardo misto di sorpresa e disapprovazione, come se fosse di fronte a un’aberrazione.
“Non saper scrivere,” disse infine, scuotendo la testa, “è come non avere le mani. Come puoi manipolare il mondo senza saper catturare i tuoi pensieri?”
Da quel giorno, Kethmer fu costretto a imparare. Le notti insonni, già dominate dal fischio, furono riempite da esercizi faticosi su pergamene grezze. L’alfiere si sedeva accanto a lui, guidandolo con una pazienza tagliente, correggendo ogni errore con un tono severo. Kethmer lottava con ogni tracciato, le mani che tremavano per la frustrazione, ma l’alfiere non mollava. “La mente si forgia come una lama, Pedina,” ripeteva. “E questa è solo la prima scintilla sulla pietra.”
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Qualcosa, però, si stava sgretolando dentro di lui. Dopo l’incontro notturno con El, qualcosa cambiò. Nella sua mente, contro la sua volontà, apparve spesso l’immagine della mesvet.
L’idea lo colpì come una lama al petto, confondendolo e irritandolo. Perché stava pensando a lei? Perché il suo corpo reagiva in quel modo al ricordo di quella Mesvet glaciale e sadica? La rabbia lo consumava, unita al fischio che aumentava, portandolo a una follia ebbra.
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Durante le lezioni, El non perse occasione per stuzzicarlo. Non faceva mai nulla di plateale, ma ogni tanto, sotto il tavolo, appoggiava una mano sulla sua coscia, con un tocco così leggero e fugace da sembrare quasi casuale. Ma non lo era. Era un gioco, una provocazione, e Kethmer lo sapeva.
Il fischio aumentava ogni volta, cercando di trascinarlo nell’abisso, ma qualcosa in lui cominciava a cambiare. Invece di cedere, si concentrava sugli studi. Fissava il tomo davanti a sé con una determinazione feroce, ripetendo mentalmente le parole dell’alfiere per soffocare il rumore dentro di lui.
Il risultato era grezzo, imperfetto, ma funzionava. Ogni volta che riusciva a reprimere il fischio, anche solo per pochi istanti, sentiva un briciolo di controllo tornare nelle sue mani.
Eppure, il conflitto rimaneva. Ogni tocco, ogni parola, ogni sguardo di El sembrava scivolare sotto la sua pelle, insinuandosi nei suoi pensieri più profondi. E lui odiava quella sensazione. Odiava lei. Odiava sé stesso per ciò che provava.
Ma, soprattutto, odiava il fatto che, per quanto si sforzasse, non riusciva a ignorarla.
Le giornate di Kethmer erano sempre più dominate dagli studi. La gravitomanzia divenne il suo rifugio, il modo per distrarre la mente e trovare un senso di controllo in un mondo che sembrava costantemente volerlo piegare. A differenza di tutte le altre scuole di magia, dove si dimostrava un completo incapace, trovò nella gravitomanzia un’affinità naturale, come se quella forza invisibile fosse parte integrante della sua stessa esistenza.
Sotto la guida dell’alfiere, imparò a concentrare meglio il fumo, a canalizzarlo con precisione. L’alfiere gli insegnò a manipolare la pressione gravitazionale, sia per alleggerire il peso su sé stesso o sugli altri, sia per aumentare la velocità dei movimenti. Con pazienza, Kethmer riuscì persino a padroneggiare un incantesimo più avanzato: manipolare i centri di gravità per levitare in varie direzioni a comando.
La prima volta che riuscì a sollevarsi da terra, anche solo per pochi secondi, fu un momento di pura euforia. Per un istante, il fischio nelle orecchie si placò, lasciandolo avvolto da un silenzio quasi ultraterreno. Non era solo il piacere fisico di librarsi nell’aria, ma la sensazione di aver raggiunto un livello di controllo che sembrava impossibile.
Raggiunta una certa padronanza, decise di condividere la sua scoperta con gli altri. Durante un’esercitazione, spiegò ai compagni la gestione del movimento gravitazionale, il modo in cui trovare l’equilibrio. Il goblin e lo gnomo più anziano, si abituarono a levitare per brevi periodi, seguivano le sue istruzioni e fluttuavano nell’aria con movimenti fluidi, provando diverse direzioni con risultati discreti.
Fu allora che El si fece avanti.
La Mesvet, come sempre, aveva un’aria di sfida nei suoi occhi freddi. Si avvicinò con noncuranza, come se partecipare fosse solo un passatempo, ma era evidente che il suo ego non le permetteva di restare indietro. “Va bene, mostrami come si fa,” disse, la voce impassibile, ma con un accenno di sarcasmo.
Kethmer si avvicinò, cercando di mantenere la calma. Toccarla era una condizione necessaria per imprimere il fumo nella sua pelle, ma sapeva che sarebbe stato un momento di tensione. Si concentrò, lasciando che il fumo danzasse lungo le sue dita, e posò le mani su di lei. Sentì la sua pelle fredda sotto le dita, un contrasto che lo turbò per un istante.
Poi, con un sorriso sottile che non aveva nulla di sincero, cambiò intenzionalmente la formula.
Il fumo non creò la leggerezza necessaria per levitare. Al contrario, creò un campo di gravità forzata che schiacciò El a terra, facendola cadere in ginocchio con un suono sordo.
“Scusa,” disse Kethmer con un finto dispiacere, cercando di mascherare il sorriso che gli curvava le labbra. “Devo aver sbagliato formula.”
El alzò lo sguardo verso di lui, i suoi occhi due fessure di puro ghiaccio. Per un momento non disse nulla, ma la tensione nella stanza era palpabile. Il goblin e lo gnomo anziano smisero immediatamente di fluttuare, osservando la scena con occhi spalancati.
“Bravo,” disse infine El, rialzandosi lentamente, la sua voce piatta come sempre, ma con una nota pericolosa. Si spolverò la veste con calma, poi lo fissò dritto negli occhi. “Ti concedo questa.” Fece una pausa, un sorriso sottile che tradiva qualcosa di inquietante. “Ma solo questa.”
Kethmer non rispose, ma il sorriso che gli increspava ancora le labbra era una vittoria silenziosa. Per una volta, aveva avuto la meglio su di lei.