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Acufene [Italiano]
Capitolo IV: L'allenamento

Capitolo IV: L'allenamento

Kethmer stava finendo l’ultimo boccone, le mani ancora sporche di cibo e polvere, quando la porta si aprì di nuovo. Questa volta, la figura che entrò non era avvolta in un’armatura imponente. Era la Torre, l’orco, ma senza la protezione metallica che lo aveva fatto sembrare un muro ambulante. Indossava solo un pantalone di stoffa grezza, il torso muscoloso e cicatrizzato esposto, le braccia possenti che pendevano ai lati del corpo come due mazze pronte a colpire.

“Alzati,” grugnò l’orco con voce profonda.

Kethmer esitò per un istante, ma la presenza dell’orco lo costrinse a obbedire. Si alzò a fatica, il corpo ancora dolorante, ma la sua mente era più lucida. Qualcosa stava cambiando. Gli occhi dell’elfo guizzavano intorno, osservando dettagli che prima gli erano sfuggiti.

La Torre lo condusse fuori dalla stanza, e Kethmer notò altre porte simili alla sua, tutte lungo un corridoio lungo e scarsamente illuminato. Alcune erano aperte, e dietro di esse intravide figure che si muovevano liberamente. Un uomo magro e dal viso scavato si trascinava con passo lento, una donna robusta stava facendo flessioni sul pavimento, il suo respiro pesante che rimbombava nel silenzio.

Passando davanti a una porta socchiusa, Kethmer incontrò lo sguardo di un nano. Era il nano tatuato che lo aveva visto nell’arena, Torvax. Gli occhi del nano erano taglienti, due lame che lo scrutavano con curiosità e una punta di sfida. Per un attimo, i due si fissarono in silenzio, ma nessuno dei due parlò. Lo sguardo di Torvax fu l’unica cosa che lo seguì mentre l’elfo veniva trascinato via.

Non sembrava esserci molta gente nel luogo. Pochi individui, tutti con un’aria consumata ma determinata, sparsi lungo i corridoi o chiusi nelle stanze. Sembravano liberi di muoversi, a differenza di Kethmer, che si sentiva ancora una pedina, sempre guidata, sempre sotto controllo.

La Torre lo portò giù per una rampa di scale in pietra, i passi dell’orco che risuonavano come tamburi nel silenzio. Alla fine raggiunsero una sala ampia, illuminata da fiaccole appese alle pareti. Al centro, manichini di legno e paglia erano disposti in fila, le rastrelliere lungo i muri traboccavano di armi di ogni tipo: spade, lance, mazze, pugnali, e persino archi.

L’odore di sudore e polvere permeava l’aria, e lo spazio era chiaramente adibito all’allenamento. La Torre si fermò al centro della sala, in una zona libera da ostacoli, e si voltò verso Kethmer.

“Dicono che sei forte perché ti rigeneri,” disse l’orco, la voce intrisa di disprezzo. “Perché non muori.”

Kethmer si irrigidì, la memoria delle sue ferite e della loro lenta guarigione lo colpì come un pugno. Rimase in silenzio, gli occhi che osservavano l’orco con cautela.

“Per me,” continuò la Torre, sollevando le braccia in una posizione marziale, “sei solo più divertente da rompere.”

L’orco alzò i pugni, le dita che si chiudevano con uno schiocco secco. I suoi occhi brillavano di una luce crudele, e un sorriso storto si aprì sul suo volto cicatrizzato.

“L’allenamento finirà,” dichiarò, “quando riuscirai a colpirmi.”

Kethmer rimase immobile per un momento, il corpo teso e la mente che correva. Sapeva che non aveva scelta. Con il cuore che batteva forte, fece il primo passo verso l’orco. La lotta era appena iniziata.

L’elfo avanzò verso la Torre, il corpo teso, le gambe malferme. La sua mente era un caos, i fischi nelle orecchie si mescolavano al battito martellante del cuore. Sapeva di essere debole, sapeva di non avere alcuna possibilità contro l’orco, ma il comando era stato chiaro: doveva colpirlo. Solo così l’allenamento sarebbe finito.

Fece appena in tempo a preparare un pugno maldestro quando l’orco si mosse con una velocità disarmante. La gamba massiccia della Torre si sollevò in un arco fluido, colpendo Kethmer al petto con un calcio devastante. Le costole dell’elfo si spezzarono con un suono secco e sordo, e il suo corpo fu scagliato indietro, sbattendo contro il pavimento con un tonfo.

L’aria uscì dai polmoni di Kethmer in un gemito soffocato. Si contorse, la mano che stringeva il fianco mentre un dolore lancinante lo attraversava. Sentiva le costole spostarsi sotto la pelle, rigenerarsi lentamente con una sensazione che mescolava agonia e nausea.

“Ancora,” ordinò la Torre, la voce profonda che rimbombava nella sala. L’orco si avvicinò con calma, il sorriso crudele che gli deformava il volto cicatrizzato.

Kethmer strinse i denti e si alzò a fatica. Ogni movimento era una tortura, ma la sua mente si spingeva avanti, più per disperazione che per forza di volontà. Si lanciò di nuovo, un tentativo goffo di colpire l’orco, ma venne fermato da un pugno che gli spezzò il collo. La lotta continuò, un ciclo senza fine di fallimenti e sofferenza.

La Torre lo colpiva senza pietà, il corpo dell’elfo che crollava, si rompeva, e lentamente si rigenerava. Più volte Kethmer si trovò in un limbo tra la vita e la morte, il dolore che si spegneva solo per essere sostituito dalla consapevolezza che il suo corpo si stava rialzando, obbligato a subire ancora.

Passarono giorni. Ogni allenamento seguiva lo stesso copione: Kethmer si lanciava, veniva abbattuto, si rigenerava, e tornava a combattere. La sua mente si svuotava, il tempo perdeva significato. La notte portava solo insonnia, i fischi nelle orecchie che lo perseguitavano, e il corpo, troppo esausto per trovare riposo, che si agitava in un letto che sembrava una prigione.

Una notte, però, qualcosa cambiò. Kethmer si sedette sul bordo del letto, il corpo un groviglio di dolore e rigenerazione, e per la prima volta sentì un fuoco bruciare dentro di lui. Non era paura. Non era disperazione. Era rabbia.

La Torre lo umiliava ogni giorno. Lo colpiva, lo ridicolizzava, lo definiva un microbo, un debole. Quelle parole si attorcigliavano nella mente di Kethmer, scavando un solco che presto si riempì di odio.

Non sarebbe stato debole. Non sarebbe stato una pedina per sempre.

Quella notte iniziò ad allenarsi nella stanza. Con il fiato corto e i muscoli che gridavano, si mise a fare piegamenti, flessioni, e qualsiasi esercizio gli venisse in mente. Il suo corpo urlava per la fatica, ma Kethmer non si fermò. Ogni movimento era un grido muto di sfida, un voto silenzioso che un giorno avrebbe colpito la Torre.

I giorni passarono in un ciclo agonizzante: allenamento, rigenerazione, insonnia, e odio. Kethmer non parlava più, non cercava più di ribellarsi. Accettava i colpi della Torre senza un suono, ma ogni notte si allenava nella sua stanza, il cuore alimentato dalla rabbia.

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Il suo corpo iniziò a cambiare. I muscoli si irrobustirono, le mani si indurirono. Ogni fischio nelle orecchie sembrava ora un rintocco di campana, una promessa di ciò che sarebbe venuto. Ogni insulto della Torre era un carburante per il fuoco che ardeva dentro di lui.

Kethmer non dimenticava. E, con il tempo, iniziò a costruire la sua vendetta, un movimento alla volta, un respiro dopo l’altro. Non sarebbe stato debole. Mai più.

Il ciclo continuava, implacabile. Giorno dopo giorno, l’arena dell’allenamento diventava il teatro della sofferenza di Kethmer, un palcoscenico su cui si spezzava e si ricomponeva, una vittima della brutalità sistematica della Torre. Ma nelle notti, lontano dagli occhi degli altri, Kethmer era un uomo diverso.

Il corpo dell’elfo, un tempo magro e fragile, cominciava a cambiare. I muscoli si definivano, le spalle si allargavano, le mani si indurivano come pietra. Ogni movimento notturno nella sua stanza—flessioni, piegamenti, calci contro il muro—diventava più fluido, più preciso. Le ore che avrebbe dovuto dedicare al sonno erano invece un tempo di disciplina, un tempio in cui sacrificava il proprio riposo per costruire qualcosa di nuovo: un corpo, una mente, un uomo.

La rabbia dentro di lui non si placava, ma era cambiata. Non era più un fuoco che bruciava senza controllo; era una fiamma alimentata con attenzione, usata per forgiare la sua determinazione. Non sarebbe stato debole. Non sarebbe stato una pedina.

La Torre lo notò. Non poteva non farlo.

I primi segnali erano sottili: i colpi di Kethmer, un tempo maldestri e prevedibili, cominciarono a mostrare una parvenza di tecnica. Quando si lanciava all’attacco, i suoi movimenti erano più rapidi, più calcolati. I pugni, un tempo senza forza né direzione, ora avevano un peso. Anche le cadute erano diverse. Kethmer sapeva come girarsi, come attutire l’impatto, come rialzarsi più velocemente.

La Torre smise di ridere. I suoi insulti si fecero più taglienti, più mirati. “Cresci,” gli disse un giorno, la voce priva di sarcasmo. “Ma non basta crescere. Devi capire.”

E così il tono degli allenamenti cambiò. La Torre, un tempo brutale e implacabile, divenne più metodico, quasi didattico. I suoi colpi erano ancora devastanti, ma ora sembravano guidare Kethmer, sfidarlo a pensare, a reagire.

“Devia,” grugnò un giorno, quando Kethmer si lanciò in avanti con un pugno. L’orco bloccò l’attacco con una semplicità disarmante, poi si girò, colpendo Kethmer al fianco con il gomito. L’elfo crollò, ma non perse il focus. Si rialzò, stringendo i denti.

La prossima volta, quando l’orco fece per colpirlo di nuovo, Kethmer alzò il braccio, non per bloccare, ma per deviare. La forza del colpo dell’orco scivolò via, e Kethmer mantenne il suo equilibrio. Era un piccolo successo, ma un successo comunque.

“Meglio,” grugnì la Torre, il volto inespressivo. Ma i suoi occhi lo studiavano con più attenzione.

Notte dopo notte, Kethmer lavorava sul controllo. Non bastava la forza, non bastava la rabbia. Doveva imparare a prevedere, a leggere i movimenti dell’avversario. Quando l’orco alzava il pugno, Kethmer cominciava a capire l’angolo, la velocità, la direzione. Non poteva sempre bloccare, ma poteva schivare, poteva deviare.

Ogni volta che riusciva a evitare un colpo, anche solo di un soffio, sentiva crescere dentro di sé una scintilla di soddisfazione. La Torre era ancora più forte, più veloce, ma Kethmer imparava. La brutalità dell’orco era diventata meno casuale, più concentrata, quasi rispettosa.

Il tempo si dilatava, ma non era più solo un ciclo di dolore e rigenerazione. Era un ciclo di trasformazione, di crescita. L’odio di Kethmer verso la Torre non si era placato, ma ora era accompagnato da qualcosa di diverso: la determinazione a dimostrare di non essere più una vittima.

Un giorno, quando l’orco si preparava ad attaccare, Kethmer lo osservò con attenzione. Fece un passo indietro, calcolando la traiettoria del colpo. Il pugno arrivò, devastante, ma Kethmer lo deviò con il braccio, trasformando la forza in un movimento che lo spinse lateralmente. Era ancora in piedi. Per la prima volta, non cadde.

La Torre lo osservò, e un sorriso storto si dipinse sul volto cicatrizzato. “Stai imparando, microbo,” disse, alzando di nuovo i pugni. “Ma vediamo quanto riesci a resistere.”

Kethmer si presentò all’allenamento con la stessa determinazione che ormai lo accompagnava ogni giorno. Il corpo, temprato da settimane di fatica e dolore, si muoveva con sicurezza, i movimenti sempre più precisi e coordinati. La mente, una volta annebbiata dalla disperazione, era lucida, focalizzata su un solo obiettivo: migliorare, sempre.

La Torre lo attendeva, come sempre, al centro dello stanzone. Ma quel giorno, qualcosa era diverso. Accanto a lui, sul pavimento, c’erano quattro oggetti metallici: due polsiere e due cavigliere, ciascuna decorata con rune grezze e intagli grossolani. Kethmer si fermò, lo sguardo che vagava da quelle strane aggiunte all’orco, il quale gli restituì un sorriso crudele.

“Oggi sarà più interessante,” disse la Torre, la voce profonda che rimbombava nella sala. “Visto che ti stai abituando troppo ai colpi, è ora di aumentare il carico.” Si chinò, afferrando le polsiere e le cavigliere, e le lanciò verso Kethmer con un gesto brusco. “Indossale.”

Kethmer afferrò gli oggetti. Erano pesanti, sorprendentemente pesanti. Sentì i muscoli delle braccia protestare mentre li sollevava. Per un momento esitò, ma poi si chinò e iniziò a fissarle ai polsi e alle caviglie. Il metallo freddo si serrò contro la pelle, e il peso aggiuntivo lo fece vacillare.

“Adesso sei più lento,” osservò la Torre, posizionandosi nella sua solita postura di combattimento. “Vediamo quanto tempo impieghi per abituarti.”

Kethmer mosse un passo in avanti, ma il peso lo sbilanciò. Tentò di alzare le braccia, ma le polsiere sembravano pietre che lo trascinavano verso il basso. Quando la Torre avanzò e sferrò il primo colpo, Kethmer riuscì a malapena a reagire. Il pugno lo colpì al petto, e l’elfo cadde a terra con un tonfo, il respiro che gli usciva a stento.

“Alzati,” grugnì l’orco. “Non lasciare che il peso ti fermi. Non sei debole.”

Quelle parole colpirono Kethmer più di qualsiasi pugno. Stringendo i denti, si rimise in piedi, il corpo che si piegava sotto il carico. Ogni movimento era una lotta, ma non si fermò. Ogni colpo della Torre lo mandava al tappeto, ma ogni volta si rialzava, più rapido, più stabile. Il dolore, che un tempo lo paralizzava, era ormai sfumato in una costante che quasi non percepiva più. Il peso diventava parte di lui, un ostacolo che doveva superare.

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I giorni passarono, e Kethmer si adattò. Le polsiere e le cavigliere non erano più un limite insormontabile, ma un’altra sfida da affrontare. I suoi movimenti, inizialmente goffi e rallentati, ripresero fluidità. Le deviazioni diventavano più precise, gli schivi più eleganti. Ogni allenamento era un passo avanti, un gradino scalato nella lunga salita verso la forza.

La Torre lo notò. L’orco, che all’inizio aveva colpito Kethmer con una brutalità quasi meccanica, cominciò a osservare i suoi progressi con un misto di interesse e rispetto.

“Non male,” commentò un giorno, dopo che Kethmer era riuscito a schivare tre dei suoi attacchi consecutivi. “Sei più veloce di quanto pensassi, anche con quei pesi addosso.”

Kethmer non rispose. Si limitò a rialzarsi, il fiato corto, ma lo sguardo determinato. La Torre sorrise. “Va bene così,” aggiunse. “Forse non sei solo un microbo. Forse c’è qualcosa di più.”

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Con il tempo, l’odio che Kethmer provava per la Torre cambiò. Non era più un sentimento feroce e incontrollabile. Era qualcosa di diverso, qualcosa di più misurato. Ogni colpo che riceveva era una lezione, ogni caduta un’opportunità. L’orco non era solo un carnefice; era un avversario, un rivale. E Kethmer sapeva che, per quanto lo odiasse, lo rispettava anche.

La Torre sembrava notare quel cambiamento. Cominciò a parlargli durante gli allenamenti, non solo per insultarlo, ma anche per correggerlo, per insegnargli.

“Devi sempre pensare al prossimo colpo,” disse una volta, dopo che Kethmer aveva deviato un pugno ma si era lasciato scoperto per il successivo. “Non basta reagire. Anticipa.”

Un’altra volta, dopo che Kethmer era riuscito a colpirlo di striscio per la prima volta, la Torre si fermò e annuì. “Non male,” disse, asciugandosi il sangue dal labbro. “Hai finalmente fatto qualcosa di utile.”

Quei riconoscimenti, per quanto piccoli, alimentavano il fuoco di Kethmer. Lo spingevano a lavorare più duramente, a crescere ancora di più. Ormai, la Torre non era solo un avversario. Era un punto di riferimento, un obiettivo da superare. E, in silenzio, Kethmer si ripromise che un giorno lo avrebbe fatto. Un giorno, lo avrebbe battuto.