Brycen controllava l’orologio da taschino in modo compulsivo quando si stava annoiando o quando sperava di vedere le lancette raggiungere al più presto una certa ora.
Era incredibile quanto rapidamente si fosse abituato a quel piccolo oggetto, tanto da non poterne più fare a meno. A volte non guardava neppure il quadrante, limitandosi a rigirarsi la catenella tra le dita o ad aprire e richiudere lo sportellino, una pratica che trovava rilassante. I suoi studenti si erano abituati a sentire di tanto in tanto i suoi tla-tlack durante le lezioni, ma era palese quando il gesto era di natura inconscia oppure, come quel giorno, dettato dall’impazienza. Non che avesse fretta per una qualche ragione particolare: non aveva nessun programma specifico né compiti da svolgere con impellenza, seguiva una vita abitudinaria e organizzata da quando si era trasferito a Sayfa. C’erano volte però in cui la stanchezza aveva la meglio, giorni in cui non vedeva l’ora di poter godere di un po’ di riposo dopo una settimana impegnativa, chiudere gli occhi e riprendere fiato.
Il suo lavoro non era sottovalutato come a Zima, dove qualsiasi cosa che non richiedesse uno sforzo fisico era giudicata semplice e poco stancante, ma pochi avrebbero realmente compreso quanta pazienza e impegno erano richiesti per spiegare i dettami verbali della sua lingua. Lo zimeo non era semplice da imparare, perciò non lo era neanche insegnarlo: gli studenti erano costretti ad approcciarsi ad un linguaggio molto distante dal sayfano e che non aveva basi comuni con nessuna delle vecchie lingue della Repubblica. Possedeva un alfabeto proprio, una grammatica complessa e una fonetica dura e pesante che creava agli abitanti di Sayfa non poche difficoltà nella pronuncia e che, di contro, aveva lasciato a Brycen un marcato accento che non riusciva a nascondere nonostante il suo impegno nel migliorare la dizione.
Il lato positivo era che il suo corso era facoltativo nell’Accademia, perciò i suoi studenti erano tutte persone che avevano volontariamente scelto di imparare. Il lato negativo era che Brycen si trovava ad interagire con gruppi misti di uomini e donne con età ed istruzione diversi tra loro, perciò trovare l’equilibrio e il corretto metodo d’insegnamento era tutt’altro che immediato. Non di meno, era molto raro che qualcuno si approcciasse all’apprendimento della sua lingua per semplice passione, come accadeva per il jiyano. Zima non poteva essere più distante dalla Terra dei Sogni, come i più chiamavano Jiyu: si presentava fredda e inospitale, significati che abbracciavano sia le sue terre che le persone che le abitavano, e l’arretratezza di cultura e tecnologia non era allettante. Scavando a fondo Brycen avrebbe trovato qualcuno in grado di apprezzare i paesaggi mozzafiato delle sue montagne innevate o che avrebbe mostrato interesse per la sua cultura o per la religione di Beyled e le sue filosofie, ma sapeva che se Zima generava interesse nella collettività di Sayfa era per una sola ragione: le Cave di Sihir.
L'energia mistica era invisibile quando sostava nell'atmosfera, ma quando si legava in alte concentrazioni all'acqua o alla roccia queste assumevano un caratteristico colore violaceo prendendo il nome di Acqua e Pietra di Sihir, attraverso il quale gli uomini riuscivano a sfruttarne le potenzialità. Con un territorio che si estendeva per oltre metà del continente e la più alta concentrazione di Pietre di Sihir, Zima era considerata un’inesauribile fonte di ricchezza: le miniere erano così abbondanti che villaggi e città sorgevano in gran numero al loro fianco, usando i preziosi minerali non solo come fonte di energia e sostentamento per i terreni altrimenti difficili da coltivare ma per abbellire abiti, suppellettili e gioielli, una pratica che molti avrebbero considerato un assurdo spreco. I commerci con le altre nazioni erano fiorenti, ma gli zimei si approcciavano alle lingue straniere con freddezza e un pigro rifiuto, costringendo chiunque volesse svolgere affari con loro ad imparare lo zimeo. Compravendita o estrazione erano perciò le motivazioni più comuni che spingevano gli studenti di Brycen ad apprendere: non erano motivazioni scialbe o scorrette - Brycen non riteneva esistesse un movente sbagliato per imparare qualcosa - ma a volte sentiva il peso di non leggere nei loro occhi un interesse più profondo. Non poteva dirsi insoddisfatto del suo lavoro, ma era certo che insegnare filosofia o letteratura lo avrebbe appagato maggiormente… se solo fosse riuscito ad ottenere una di quelle cattedre in Accademia.
Brycen si lasciò andare ad un liberatorio sospiro di sollievo nel vedere le lancette scoccare le diciotto. Sorrise agli studenti che lo salutavano nel raccogliere le proprie cose e fu lieto di non essere trattenuto da ulteriori domande, precipitandosi all’esterno dove ad accoglierlo c’era ancora il tiepido sole dei primi giorni d’estate. Brycen adorava la bella stagione: giornate più luminose davano la percezione di essere anche più lunghe, di avere più tempo a disposizione. Era solo un’illusione mentale, ma lo rendeva più produttivo e sereno. Il solo concludere la giornata lavorativa con il sole ancora alto nel cielo lo metteva di buon umore e passeggiare all’aria aperta era un toccasana per la sua spossatezza mentale.
Si concesse di tenere un passo tranquillo piuttosto che affrettarsi a casa come faceva di solito, lasciandosi trasportare dagli odori e i colori di cui la città era straordinariamente piena. Dopo tre anni Brycen non si era ancora completamente abituato a Mehtap, né aveva raggiunto la fase in cui i suoi ambienti smettevano di sorprenderlo: era troppo diversa dalla cittadina in cui era cresciuto, che aveva considerato grande fin quando non si era scontrato con la vastità dell’ex-Capitale di Sayfa, e quel mondo nuovo che non smetteva di affascinarlo. A Zima non si trovavano vie simili, dove negozi dalla natura più disparata si alternavano in un cammino squisitamente commerciale; la sua lingua non aveva neppure una traduzione per “Negozio”, poiché non era un concetto familiare per gli zimei. Brycen provava ancora un sottile senso di meraviglia ogni qual volta si trovava davanti alla moltitudine di vetrine, ai banchi espositori o alle insegne illuminate dal Sihir.
Non sapeva dire perché quella del Nerea attirò la sua attenzione. Non aveva nulla di eccezionale, ma Brycen trovò l’azzurro cielo dell’onda che abbracciava la scritta piuttosto familiare, forse perché si trovava all’angolo di svolta nella strada che portava dall’Accademia a casa sua, perciò l’aveva registrata inconsciamente come punto di riferimento. Ricordava di aver già notato quell’insegna - il mare suscitava in lui un certo fascino, un’attrazione dovuta al fatto che non l’aveva mai visto dal vivo - ma non era mai entrato all’interno del bar. Lanciò un fugace sguardo all’orologio e l’idea di sedersi e bere qualcosa per rilassarsi prima di rientrare gli sembrò sufficientemente allettante, dopo una giornata così pesante. Era un buon giorno per concedere al Nerea un tentativo.
All'interno il locale si apriva in un'allungata forma ad elle che ospitava una manciata di piccoli tavolini e un ampio bancone che metteva in mostra piccola pasticceria e stuzzichini di accompagnamento. L'arredamento era piuttosto semplice, strizzando l'occhio allo stile moderno che prevedeva legno laccato e luci al Sihir colorate, caratterizzato da tonalità pastello e decorazioni che richiamavano l'ambiente marittimo delle barriere coralline. Una leggera musica di sottofondo riempiva l'ambiente senza risultare invadente, e il profumo di zucchero e caffè permeava l'aria in un mix invitante. Brycen decretò che la sua prima impressione era positiva e prese posto al bancone, ma ebbe giusto il tempo di posare la cartella sulle gambe che due curiosi occhi neri si posarono immediatamente su di lui.
«Ciao! Cosa ti porto, caro?»
Una barista dal sorriso smagliante lo accolse allegramente. Aveva lunghi capelli azzurri raccolti in una coda alta e i tipici connotati di Jiyu - pelle chiara dal sottotono caldo, occhi dalla forma allungata, un viso piccolo dai lineamenti delicati. Non aveva alcuna traccia di accento, ma Brycen non l’avrebbe notato in ogni caso per via di quel caro che lo fece sobbalzare appena. A volte pensava che non si sarebbe mai realmente abituato all’informalità di Sayfa.
«Buonasera. Gradirei un’acqua tonica con un po’ di limone, grazie.»
«Davvero?» La barista ridacchiò appena, a metà tra il divertito e il sorpreso. «Mi aspettavo grappa o vodka. Non bevete sempre superalcolici da quelle parti?»
Brycen le lanciò uno sguardo confuso mentre la osservava afferrare un bicchiere di vetro.
«Sei di Zima, giusto? Mi sembra di aver riconosciuto l’accento.»
«Oh. Sì, esatto.» Confermò Brycen distendendo la sua espressione. «Hai ragione riguardo agli alcolici, ma non vedrai mai uno zimeo bere da solo a meno che non sia particolarmente depresso.»
Lei liberò un verso di comprensione. «Allora sono più che felice di servirti dell’acqua tonica. Se avessi voglia di un bicchierino, però, sappi che sarò lieta di versare qualcosa da bere anche a me per accompagnarti. Solo non dirlo al mio capo.»
Gli rivolse un occhiolino mentre stappava una bottiglietta di vetro versandone il contenuto nel bicchiere, aggiungendo cubetti di ghiaccio e una fetta di limone. Non distoglieva lo sguardo da lui, lasciando all’abitudine il compito di guidarla in quelle movenze che effettuava con rapidità e una scioltezza che lasciava trasparire la sua maestria. Forse una simile fluidità era comune nel suo lavoro, ma dal modo in cui afferrava e spostava le cose - quasi fossero i movimenti di una coreografia - Brycen sospettò che fosse quel genere di barista in grado di maneggiare bicchieri e bottiglie come fossero attrezzi da giocoliere. Aveva avuto modo di vedere un simile spettacolo solo una volta, ma ne era rimasto affascinato.
«Sai, non entrava uno zimeo da…quand’è stata l’ultima volta che è entrato uno zimeo, Mindy?»
Brycen si rese conto solo in quel momento di essere rimasto in silenzio. Sollevò lo sguardo per vedere la barista alzare gli occhi verso una collega dai corti capelli castani intenta a riporre alcune tazzine vuote nel lavabo, che le mostrò un’espressione pensierosa prima di rispondere.
«Uno zimeo? Non se ne vedono da più di due anni, forse anche di più!»
«Sentito? È un evento straordinario!»
La barista tornò con lo sguardo su Brycen nel porgergli il bicchiere, ma anche dopo aver ricevuto il suo ringraziamento non accennò ad allontanarsi.
«Di ritorno dall’Accademia?» Indicò con un cenno del mento la cartella di libri che Brycen aveva sul grembo e lui si limitò ad annuire. «A quest’ora vengono sempre parecchi studenti. Che corsi frequenti?»
«Nessuno, in realtà. Non frequento l’Accademia, sono un insegnante.»
«Sul serio?! Ma è fantastico, sei così giovane! Mi rifiuto di credere che tu abbia più di trent’anni.»
«Ventisei.» La corresse Brycen pacatamente. «Ma l’istruzione a Zima segue regole completamente differenti, non è così insolito insegnare alla mia età.»
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Era più sorprendente il fatto che fosse un uomo a farlo. La conversazione non sarebbe andata avanti in modo così tranquillo se avesse dichiarato con tale orgoglio la sua professione a Zima.
«Io lo trovo un traguardo eccezionale.» Disse la barista. «Cosa insegni?»
«Lingua zimea.»
«Dei, che bello! Adoro le lingue straniere, non per vantarmi ma sono anche piuttosto brava!» Sollevò il capo in un giocoso orgoglio, poi si sporse verso di lui sfruttando le mani come appoggio sul bancone. «Però l’unica cosa che conosco in zimeo è Dobroye utro, che se non erro vuol dire “Buongiorno”. Non chiedermi di scriverla perché non ho idea di come si faccia!»
«Se può essere di consolazione, l’hai pronunciato meglio di alcuni miei studenti. Lo leggono Dabrata, così mi accolgono ogni giorno in classe dicendo Gentilezza.» Forse aveva usato un tono troppo serio per quella che doveva essere un aneddoto divertente, ma lei rise comunque.
«Buon per me! In effetti era da un po’ che pensavo sarebbe utile imparare le basi, o quantomeno l’alfabeto. Mi piacerebbe andare in vacanza a Zima, un giorno! Ma a quanto ne so lì sono pochi a parlare il sayfano, giusto?»
«Se prendiamo in esame l’intera popolazione, sì. La Capitale e le altre grandi città del Sud sono più attrezzate per il turismo, negli ultimi anni è diventata buona norma apporre anche le traduzioni in sayfano almeno nei luoghi turistici più famosi.»
«Mhn, è che pensavo a qualche cittadina più a Nord...sai, per vedere davvero come si vive lì, è quello il bello! Hai qualche consiglio? Tu da dove vieni?»
Brycen abbassò lo sguardo sul bicchiere, incerto. Forse avrebbe dovuto metterla in guardia dallo scegliere una meta poco turistica, dove una jiyana come lei sarebbe stata accolta ben poco calorosamente, ma non voleva spegnere il suo entusiasmo.
«Kholod.» Rispose soltanto, rivolgendole un sorriso più ampio. «È una piccola cittadina sulle montagne a Nord-Est.»
«Kholod!» Il suo sguardo si illuminò. «Non ne ho mai sentito parlare, quindi direi che è perfetto! Chissà, magari potrei diventare una tua studentessa: finito l’autunno potrei davvero farci un pensiero.»
«Ti diplomi alle Scuole Alte quest'anno?»
Gli venne naturale domandarlo. L’Accademia aveva una struttura più libera, ma gli anni didattici delle Scuole di Sayfa seguivano il calendario trovando il loro inizio in inverno e la loro conclusione in autunno. La barista però liberò una breve risata divertita, umettandosi le labbra come incerta sulla risposta da dare.
«Ecco, come dire…A dire il vero ho ventitre anni.»
Brycen arrossì di vergogna. «M-mi dispiace...»
«Tranquillo, è un errore comune! Lo dicono tutti che sembro più giovane.» Lo rassicurò scrollando le spalle. «Pensa, un giorno sono venuta a lavoro con i codini e un signore ha cominciato a lamentarsi del fatto che avessero assunto una ragazzina. Voleva persino chiamare i Sovalye, non riuscivamo a convincerlo!»
Ridacchiò con sincero divertimento e Brycen si ritrovò a piegare all’insù gli angoli delle labbra in un leggero sorriso, sentendo l’imbarazzo per quella figuraccia scivolare via. Invidiava la spigliatezza di quella barista, che parlava ad un estraneo con la naturalezza con cui ci si rivolge a persone conosciute da anni e riusciva a metterlo a suo agio con un sorriso. Brycen non era mai stato bravo nell’interazione sociale: non gli dispiaceva conversare, ma i suoi tentativi risultavano barcollanti. Teneva per sé commenti e considerazioni temendo di risultare inopportuno o noioso, e si concentrava così tanto sulla necessità di trovare qualcosa da dire che si ritrovava senza parole.
Avrebbe voluto chiederle la conclusione di quell’episodio, invece restò in silenzio abbassando lo sguardo verso il bicchiere. Credeva che quel gesto avrebbe concluso la conversazione, ma si rese conto che gli occhi neri della barista lo stavano ancora fissando con curiosità. Non ebbe il coraggio di alzare lo sguardo verso di lei: provava una leggera sensazione di disagio e si schiarì la voce nel vano tentativo di fingere di non averlo notato. Una breve chiacchierata poteva gestirla, ma non era abituato ad avere sguardi su di sé al di fuori della sua classe o dei membri del Club. Forse aspettava ancora una risposta?
«Scusa tesoro, ma te lo devo chiedere o morirò di curiosità.»
Brycen ringraziò di non aver cominciato a bere, perché quel tesoro gli avrebbe fatto sputare l’acqua tonica dalla sorpresa. Spalancò gli occhi blu puntandoli sull’espressione curiosa della barista, ma quando schiuse le labbra per dire qualcosa non riuscì a pronunciare alcun commento. Vennero fuori solo suoni confusi che la jiyana dovette interpretare come un tacito consenso.
«Forse è un dubbio banale, ma se vieni da un paese più freddo non dovresti sentire caldo, qui?»
Sollevò una mano ad indicare le sue vesti, lunghi pantaloni di tartan grigio ed una giacca scura a sovrastare la camicia blu polvere. Brycen aveva cercato di adattarsi alla moda locale, ma nelle giornate più calde i sayfani lasciavano scoperte braccia e gambe e Brycen non riusciva a sentirsi a suo agio, preferendo indossare abiti più coprenti a prescindere dalla stagione. Persino il taglio classico dell’abbigliamento zimeo era stato più difficile da abbandonare di quanto avesse creduto - magliette, jeans e cerniere non facevano per lui. Assottigliò le labbra in una smorfia, rimproverandosi di fare più attenzione a vestire secondo il clima del momento per non attirare l’attenzione su di sé, ma la confortevole abitudine aveva sempre la meglio.
«Normalmente sì, ma potremmo dire che io non soffro il caldo.»
Né il freddo, avrebbe potuto aggiungere. La sua temperatura corporea si aggirava sui ventidue gradi a causa di Subsidence, il suo Naru, che regolava la sua omeostasi tramite il Sihir. La sua pelle era perennemente gelida ma in compenso il suo organismo era in grado di sopportare climi avversi senza risentire di temperature troppo alte o troppo basse. Era semplice da spiegare, ma Brycen evitò di scendere nei dettagli: a Sayfa i Dotai come lui erano parecchi e ammettere di essere uno di loro non era problematico come a Zima, ma anni passati a nascondere i suoi poteri lo rendevano restio a parlarne con naturalezza -un’altra delle molte abitudini che faticava ad abbandonare.
Non sapeva dire se la barista si accontentò di quella risposta perché riteneva inopportuno indagare oltre o se davvero le bastò un’informazione così blanda, ma Brycen la vide sorridere e richiamare nuovamente l’attenzione della collega gesticolando animatamente.
«Mindy! Mindy, guardalo! Uno zimeo a Mehtap che non soffre il caldo!»
Brycen vide l’espressione della ragazza castana mutare dal cordiale sorriso ad una seria preoccupazione: in un batter d’occhio Mindy accostò la collega rimproverandola con lo sguardo e con un sussurro che non riuscì a decifrare. Poi rivolse lo sguardo a Brycen, sorridendo mortificata.
«La prego di scusarla, è solo molto… estroversa.»
«Non fa niente, davvero.»
Brycen sorrise gentilmente prima di abbassare nuovamente lo sguardo al bicchiere, sentendo distrattamente lo «Scusi...» di un cliente poco lontano da lui.
«Vai, ti stanno chiamando.» Disse Mindy sottovoce, e la jiyana sbuffò contrariata.
Brycen trovò adorabile il modo in cui borbottò «Ma lo zimeo…» con lo stesso tono in cui una bambina cerca di convincere la mamma a non mandarla a letto presto, ma lo sguardo di Mindy bastò a convincere la collega a fare il suo lavoro. Le due bariste si allontanarono in un cenno cortese e Brycen si concesse più tempo del necessario per bere la sua acqua tonica, trovando il clima del locale piuttosto gradevole. In parte era anche merito della barista dai capelli azzurri, per quanto Mindy temesse il contrario: Brycen poteva vederla lanciare fugaci sguardi alla jiyana, come ad assicurarsi che non esagerasse con la sua esuberanza, ma lui lo considerava un pregio. Rendeva l’ambiente più allegro e apprezzabile.
Una rapida occhiata all’orologio lo informò che era rimasto seduto per oltre un quarto d’ora, perciò decise che era giunto il momento di tornare a casa. La barista jiyana si affrettò a raggiungere la cassa quando lo vide alzarsi, come a volersi assicurare di essere lei a ricevere il suo pagamento. Si guardò attorno e poi gli fece cenno di avvicinarsi a lei, sfoggiando un sorriso complice come se avesse intenzione di rivelargli un qualche segreto.
«Senti, ti posso fare qualche domanda su Zima?»
Parlò sottovoce, piegando appena il busto in avanti e raccogliendo le monete che Brycen aveva posato sul bancone. Lo fissava con gli occhi ridotti a una fessura e un’espressione buffa che insieme alla frangetta dal taglio dritto la facevano sembrare effettivamente una ragazzina.
«È vero che al matrimonio gli sposi cavalcano una renna?»
«Sì, è vero.» Brycen si ritrovò ancora una volta a sorridere genuinamente. «Inizialmente è solo la donna, l’uomo le cammina accanto tenendo le redini. Solo dopo la cerimonia la cavalcano insieme.»
«Oh Dei, è così romantico! Ed è vero che non vengono scambiati anelli?»
«Vero anche questo. La tradizione vuole che si utilizzi un panno di tessuto per legare le mani degli sposi. Un matrimonio può essere celebrato solo attraverso qualcosa di bianco, il colore sacro della Dea Beyled.»
«Oh! In effetti ho letto anche che vestite tutti di bianco, non solo la sposa, e-» Gli occhi della barista brillarono di un’improvvisa consapevolezza. «Ma certo! Ecco perché si chiama così!»
Brycen aggrottò le sopracciglia in una leggera confusione.
«Il White Wedding! In Dunier significa “matrimonio bianco”.» Riprese a dire la jiyana, ma l’espressione di Brycen manteneva ancora una leggera confusione. «È un cocktail: vodka, liquore al caffè e latte. Due alcolici uniti dal bianco: è un matrimonio zimeo!»
«Non ne avevo mai sentito parlare.» Brycen lasciò trasparire una punta di curiosità che non passò inosservata alla barista, che sorrise con più entusiasmo.
«Sei fortunato, i cocktail sono la mia specialità. Potrei preparartene uno la prossima volta!»
«Chloe! Andresti a prendere altro ghiaccio?»
La voce di Mindy impedì a Brycen di formulare una risposta. La barista dai capelli azzurri sbuffò debolmente e alzò lo sguardo con sincero dispiacere e la malcelata curiosità di chi aveva voglia di fare altre dieci, cento domande se solo ne avesse avuto possibilità.
«Il lavoro chiama.» Borbottò in un sorriso agrodolce. «Ma ti aspetto per il nostro matrimonio!»
Si guardarono. Poi lei scoppiò a ridere e Brycen non riuscì a trattenersi dal fare lo stesso, miscelando un debole imbarazzo al sincero divertimento. Non rideva in modo così spensierato di fronte a qualcuno che conoscesse così poco da… in effetti era un evento più unico che raro.
«Oh, Dei! Scusami, nella mia mente suonava in modo diverso.» Si affrettò a dire la barista, sistemandosi una ciocca di capelli dietro le orecchie. «Insomma, spero che tornerai presto a trovarci!»
Brycen la osservò allontanarsi con un’espressione raggiante, volteggiando con la grazia di una ballerina prima di sparire dietro la piccola porta di legno che dava sul retro.
Chloe, pensò Brycen rientrando a casa, il sorriso ancora stampato sulle labbra. Si chiama Chloe.